Andare a scuola senza logica
Fino a non molti anni fa se si spiegava agli studenti la fallacia di un ragionamento (sotteso ad esempio a una pubblicità televisiva) sorridevano grati e divertiti. Ora invece sono del tutto indifferenti
Supponiamo che George Clooney beva e ami davvero il Nespresso; perché mai ciò dovrebbe convincere altri, come evidentemente pensa la pubblicità, a condividere questa sua passione? In generale, qual è la rilevanza di enunciati fattuali (ammesso che lo siano) della forma «Il divo X (attore, cantante, calciatore) consuma e predilige il prodotto Y»? La parola chiave qui è «convincere»: la pubblicità offre argomentazioni implicite che da premesse comunemente accettate intendono trarre conclusioni vantaggiose per una certa azienda. Come se io ti dicessi «Non conosci la grammatica» e per convincertene ti mostrassi un tuo testo in cui hai scritto «insegnamo», senza «i». Il problema, con le argomentazioni pubblicitarie, è che sono in massima parte scorrette.
Come presumiamo che ragionino i geni che preparano questi spot? E, soprattutto, come si aspettano che ragioniamo noi? Immagino che debba andare più o meno così: «Io voglio essere come X; X consuma Y; quindi io voglio consumare Y». Ma è chiaro che, messa in questi termini, l’argomentazione susciterebbe grasse risate: io voglio essere come X nel senso di recitare o dribblare, o avere un bell’aspetto, come lui; il prodotto Y non ha nessuna speranza di farmi acquisire tali doti. Quindi l’argomentazione non viene formulata apertamente: se ne presenta solo una premessa («X consuma Y») e si lascia il resto all’immaginazione dello spettatore. Ci sta pure che qualcuno ci caschi.
Mi sono occupato di logica per più di quarant’anni, a tutti i livelli: dai convegni e dalle riviste per addetti ai lavori all’insegnamento più elementare. In tempi passati, quando in un corso introduttivo facevo esempi di questo tipo, gli studenti annuivano e spesso sorridevano. L’ultima volta, in una lezione tenuta nel 2011 in una prestigiosa università romana, mi sono trovato davanti un muro di volti indifferenti. Ho sollecitato una qualche reazione e una ragazza mi ha detto: «Se funziona, che c’è di sbagliato?». Mi sono lanciato in una filippica su come la logica sia il più efficace strumento di democrazia; ma in quella classe la mia battaglia, mi sono reso conto, era già persa.
Il commento della mia studentessa, e il silenzio dei suoi compagni, sono sintomi di un grave problema: l’Italia sta vivendo un’emergenza logica, alla quale sarebbe necessario porre rimedio. La nostra conversazione pubblica non è in grado di sostenere le forme di ragionamento più elementari. Domina un linguaggio paratattico, cioè puramente coordinativo («c’è questo e c’è quello e c’è quell’altro»), da cui non traspare nessuna consapevolezza dei rapporti di subordinazione che dovrebbero esistere fra principi (quali che siano: i principi che chiunque adotta) e conseguenze. Politici e anche cosiddette persone di cultura si affrontano in televisione a colpi di insulti e parolacce. Ammiccamenti, sottintesi e messaggi trasversali imperversano nei media. E il consenso sembra essere che in tutto questo non c’è niente di sbagliato perché «funziona».
Ma non funziona. Vediamo bene come sta funzionando questo paese. Di motivi ce ne sono tanti, ma c’è anche, fra essi, un minimo comun denominatore: il nostro è un paese dominato dal cinismo, dall’incredulità nel potere e nel valore della ragione. Del logos, cioè, del discorso significante: quello che ci definisce come esseri umani, e l’argomento che definisce la logica. Siccome la nostra vita associata si svolge per tramite del linguaggio e del discorso, il degrado del linguaggio e del discorso accompagna e condiziona il degrado di quella vita asso- ciata; e su questo degrado occorre intervenire, prima che sia troppo tardi.
La logica è una pratica, non una teoria; un’arte, non una scienza. (Diverso è il caso della metalogica, cioè dello studio matematico e filosofico dei sistemi logici, di cui qui non mi occupo.) Come ogni pratica, e ogni arte, s’impara con l’esercizio e l’esempio: esempi concreti di ragionamento corretto e scorretto (che cosa imitare; che cosa evitare) ed esercizio a costruire inferenze valide, in cui le conclusioni (a differenza che nella pubblicità) seguano dalle premesse. E, come ogni pratica e ogni arte, s’impara al meglio cominciando presto, andando a bottega da bambini. Per riparare all’emergenza in cui si trova, dunque, l’Italia do- me viene messo in evidenza dagli studi su bambini di pochi mesi di vita che vengono sorpresi da configurazioni di oggetti che danno le risposte sbagliate a queste addizioni. Per i numeri meno piccoli siete in grado quantomeno di confrontare delle quantità: "vedete" che cento pallini alla rinfusa sono meno di centocinquanta, anche se questa "visione" è un po’ miope (non riuscite a vedere se cento pallini sono più o meno di centodue). Questa protoaritmetica è essenziale all’apprendimento: l’insegnamento dei numerali, secondo autori come Elizabeth Spelke, traghetta la precisione intuitiva dei piccoli numeri nel campo dei numeri più grandi.
E per la probabilità? È vero, come dice Contucci, che non siamo molto attrezzati. Le persone calcolano con difficoltà, aiutate da un apprendimento formale, che la probabilità di una congiunzione è la somma della probabilità dei congiunti (a certe condizioni). Errori di giudizio e distorsioni cognitive non mancano. Al tempo stesso, non siamo nemmeno completamente sguarniti di intuizioni probabilistiche corrette, sulle quali sarebbe opportuno far le- vrebbe impegnarsi a far entrare il ragionamento come materia di studio e di pratica in ogni ordine di scuole, dalle elementari all’università: a far sì che, senza simboli o tecnicismi, i nostri giovani si esercitino quotidianamente a costruire buone argomentazioni, come si esercitano a scrivere in italiano e a parlare una lingua straniera.
Per accedere a molte facoltà di Oxford e Cambridge, i candidati devono superare un test detto Thinking Skills Assessment (Tsa), equamente suddiviso in problemi di logica e di matematica. Nella parte logica del Tsa, devono saper identificare premesse o conclusioni mancanti, fallacie, modi per rafforzare o indebolire un ragionamento. In misura crescente, test simili va nell’istruzione. I bambini che non hanno ancora imparato a parlare sono sorpresi in condizioni sperimentali in cui si verificano eventi improbabili come l’uscita dell’unico pallino nero da un’urna che, oltre a quello, contiene anche tre pallini rossi. E questo zoccolo duro di intuizioni probabilistiche viene confermato da ricerche su adulti che non sono stati esposti a un’istruzione formale.
In uno studio recente di Laura Fontanari e colleghi, in corso di pubblicazione su Pnas, sono state indagate le capacità di adulti e bambini di due popolazioni Maya del Guatemala, i Kaqchikel e i K'iche', rispetto a individui di controllo italiani. Uno degli studi può venir descritto abbastanza facilmente. Si mostrano due griglie, una con quarantotto pallini rossi, e una con quarantotto pallini neri. Da quale delle due conviene estrarre un pallino sapendo che se ne estraiamo uno rosso vinciamo un premio? La risposta è unanime per tutti e quattro i gruppi. Se adesso si confrontano una griglia di soli pallini rossi e una in cui solo un pallino su quattro è rosso, compaiono degli errori nella rispo-
Illustrazione di Guido Scarabottolo sono richiesti dalle aziende, anche italiane, in sede di assunzione; ma nessuno ha preparato i nostri studenti a queste prove e non può bastare un’infarinatura rimediata ad hoc all’ultimo momento per impadronirsi di un’abilità che ci è estranea. Se l’abilità è giudicata opportuna, si deve cominciare dall’inizio, non dalla fine: si deve instillarla ogni giorno nel linguaggio e nel discorso dei nostri giovani. In caso contrario avremo sempre meno una comunità di cittadini e sempre più una platea di spettatori, irragionevolmente sedotti dal sorriso del divo di turno. E non dovremo lamentarci se l’irragionevolezza domina le loro scelte, anche politiche. sta, ma i quattro gruppi sono abbastanza allineati, e sia i bambini Maya che gli italiani rispondono correttamente nell’80% dei casi. Altri tipi di scelta danno risultati analoghi, anche tenendo conto delle proporzioni per entrambe le griglie: abbiamo tutti un’idea di cosa è più conveniente scegliere se vogliamo massimizzare la probabilità di un certo risultato (e vincere un premio).
Sono intuizioni precise? No. Si tratta di approssimazioni, un po’ come quelle che in aritmetica intuitiva ci permettono di vedere la differenza tra cento e centocinquanta pallini, ma non tra cento e centodue. Se vogliamo essere precisi, e risolvere problemi probabilistici con dati più sfuocati, dobbiamo calcolare, e per questo l’istruzione è insostitutibile.