«L’Iri fu il mio Vietnam»
C’era la necessità di riorganizzare un gruppo così vasto, con 521 mila dipendenti, e fortissimi limiti nel quadro politico-istituzionale. L’Iri è stato davvero il mio Vietnam: ogni giorno una battaglia. La priorità era il risanamento. Problemi quotidiani nei singoli settori, non i massimi sistemi. Posizioni di potere nelle finanziarie e nelle imprese. Pressioni di ogni tipo, connivenze e tensioni con i poteri locali, e, in alcuni casi, con le magistrature. Una pervasività dei potentati locali che provava a bloccare o condizionare ogni decisione. Le città dell’Iri erano Genova, Trieste e Napoli, più Taranto e una forte presenza su Milano che, però, non viveva prevalentemente di industria pubblica. Per le città dell’Iri la nostra presenza era decisiva. Di fronte a una crisi aziendale si muovevano tutti, dal magistrato della Corte dei conti al sindaco, ai parlamentari del territorio, al vescovo.
Con contrasti ma anche sinergie tra sindacati e dirigenti che diventavano i defensores urbis a volte per passione civica ma, più spesso, per tutelare se stessi e le loro rendite di posizione. Intere comunità si reggevano sull’impresa pubblica: Bagnoli, i cantieri di Castellammare di Stabia e quelli di Trieste, le ferriere a Monfalcone, mentre a Genova c’era tutto, l’Ansaldo, la Fincantieri, l’Elsag e così via. Ogni ristrutturazione, ogni azione passava da pro- blemi in apparenza incomprensibili. Non era facile gestire il risanamento delle imprese secondo criteri di competitività internazionale, che già negli anni Ottanta cominciavano a diventare stringenti, con le esigenze locali che si trasferivano a Roma. Serviva una continua, faticosa opera di mediazione tra gli impegni presi a Bruxelles, la scarsità delle risorse pubbliche e la rete degli interessi locali. Infiniti viaggi nelle città dell’Iri, tavoli di mediazione, assemblee pubbliche. Scontri violenti.
Al mitico cardinale di Genova Giuseppe Siri scrissi una lettera ruvida che terminava dicendo che, se non si fosse operato un risanamento delle imprese, con i necessari sacrifici, avremmo dovuto assistere “all’inarrestabile declino della gloriosa città di cui Ella è Pasto- re”. L’azione di risanamento alla fine fu massiccia, e i sacrifici effettivamente grandi. (...) Il rinnovamento procedeva passo per passo ma veniva fortemente rallentato dal fatto che i consiglieri di amministrazione dell’Iri e quelli delle maggiori finanziarie e imprese erano, nella maggior parte dei casi, rigidamente lottizzati per quote.
Fui immediatamente etichettato come tale anche se poi la mia indipendenza fu progressivamente riconosciuta ed ebbi tra i maggiori oppositori molti di coloro che avrebbero, almeno in teoria, dovuto appoggiare la mia azione. Per questo motivo le battaglie all’interno dell’Iri erano quotidiane. Su ogni nomina c’era uno scontro. Cercavo almeno dei compromessi per fare in modo che il manuale Cencelli non fosse l’unico elemento di valutazione. Tutta la mia presidenza è stata condizionata dal braccio di ferro tra i due partiti di governo, la Dc di De Mita e il Psi di Craxi. Chi mi marcava più stretto nel comitato di presidenza dell’Iri era Massimo Pini, che dichiarava in modo aperto che il suo ruolo primario era quello di difendere gli interessi del Partito socialista. In fondo, nella sua brutale franchezza, esprimeva le stesse intenzioni che altri non osavano riferire.
I colloqui a tu per tu (con Craxi ndr) sono stati pochissimi. Il dialogo avveniva con il diaframma di Massimo Pini. I pochi incontri furono molto ruvidi, ma anche di notevole vigore dialettico. Craxi non risparmiava certo i suoi sarcastici giudizi nei miei confronti. Una volta, durante una cerimonia, mentre stavo parlando sbottò ad alta voce per farsi sentire da tutti: “Questo qui non sa neppure leggere!”. Ma non mi sono mai impressionato, sono battute che in politica sono frequentissime. In via del Corso sono stato un paio di volte. Non era lui a chiamare, era tutto delegato a Pini. Nel comitato di presidenza dell’Iri era lui che portava la voce di Craxi. Con qualche eccezione.
Sulla nomina del cda Rai, per esempio, interveniva personalmente lui. Una battaglia eterna. Durante un incontro mi disse: “Non li nomini tu i consiglieri, chi sono i socialisti lo decido io, non tu”. Era uscita l’idea che io potessi designare Federico Fellini e lui reagì: “Se Prodi lo nomina dirò che è in quota Dc”. Ribadiva sempre l’appartenenza politica e partitica: era il faro della sua azione. Però, alla fine, c’era un rapporto di rispetto. Mi è stato raccontato che una volta due deputati socialisti in visita ad Hammamet, parlando tra di loro, ridevano di me chiamandomi “mortadella”. Craxi era distratto, ma ascoltò, li guardò e disse: “Guardate che a voi due il mortadella vi fa un... così!”.