Ricerca delle prove e allerta: il doppio fronte degli inquirenti
c'è l'Isis, perché all'epoca non era ancora stato proclamato l'Islamic State. Ma l'indagine chiusa ieri dalla Procura di Cagliari su al Qaeda rivela una rovente attualità. Traccia, infatti, scenari più volte raccontati ma incastrati, adesso, in un quadro giudiziario ampio, articolato e complesso. Come lo è, in fondo, la presenza e la minaccia eversiva di tipo islamico sul nostro territorio. La sintesi delle osservazioni, dopo aver letto le carte degli inquirenti, è semplice e duplice: il livello di rischio oggi è diffuso, intenso, concreto e serio, anche se non ancora drammatico; gli apparati di sicurezza hanno svolto finora un lavoro immane e a tutti gli effetti ineccepibile. La rilettura dell'inchiesta sarda consente di sostenere che «a tutti gli effetti già molti anni fa al Zarkawi parlava di califfato ed è ormai acclarato come molte cellule di al Qaeda sono passate nell'Is», come spiega il prefetto Carlo De Stefano, dal 2001 al 2009 numero uno dell'Ucigos. De Stefano ha visto proprio nascere questa indagine condotta dalle Digos e dagli uomini della polizia di prevenzione.
Oltre gli aspetti clamorosi e più di colore, in realtà molto sfuggenti e sfumati, come l'ipotesi dell'attentato al Vaticano, è la fotografia scattata dalla Procura a fare impressione. Testimonia queste presenze pachistane in Italia, tutto sommato, molto discrete, ma pronte non appena tornano nei luoghi d'origine a compiere i delitti più efferati: omicidi, vendette, attacchi contro le forze di polizia, ricatti, corruzione. Per poi rientrare nelle nostre regioni, anche le più periferiche, in un andirivieni che non promette nulla di buono per la nostra pubblica sicurezza.
Uno degli aspetti più significativi dell'indagine è la sua enorme difficoltà: i numerosi dialetti, dal pashtun all'urdu, da tradurre e interpretare, con la garanzia tutta da verificare che gli interpreti al servizio degli investigatori siano affidabili; la miriade di clan, tribù, gruppi e gruppuscoli, dove scavare per acquisire le informazioni è un'impresa; la lentezza sfiancante – l'inchiesta chiusa ieri, infatti, è durata almeno cinque anni – del lavoro giudiziario obbligato, per essere credibile e fondato, a costruire un quadro accusatorio solido quando gli elementi sono spesso non così evidenti, pur essendo di sostanza. Il doppio lavoro degli uomini della Polizia di Stato guidati dal prefetto Alessandro Pansa, e del servizio centrale antiterrorismo in particolare, è indagare e ricostruire prove e indizi di un'accusa giudiziaria ma, al tempo stes- so, tenere sempre massima l'allerta davanti a una minaccia incombente.
L'indagine dimostra che il contrasto è stato efficace, vista la rinuncia dei soggetti inquisiti a fare un attacco sul nostro territorio. Ma le parole dette ieri dal premier Matteo Renzi – «dobbiamo stare attenti a quello che accade dentro i nostri confini» – non sono dette a caso. La comunità pachistana in Italia, secondo le statistiche revisionate dall'Istat del ministero dell'Interno, oggi guidato da Angelino Alfano, ammontava nel 2013 a 97.921 persone titolari di un permesso di soggiorno. A queste vanno aggiunte quelle – non stimabili per definizione - entrate in maniera illegale. Ci sono, certo, comunità straniere dai numeri molto più elevati, ma l'indice di rischio di questa etnìa impone, com'è noto alle forze di polizia, un'attenzione particolare, assidua. Il reticolo di collegamenti e di linee di azione eversiva è un fatto.
Del resto l'inchiesta di Cagliari conferma un'altra veri-
LA FORMA DELLA MINACCIA L’inchiesta di Cagliari conferma anche la duplice forma della minaccia terroristica: quella dei piccoli gruppi e quella dei lupi solitari