Il Sole 24 Ore

Dal 2016 Italia fuori dalla Carta dell’energia

Il Mise: «È per tagliare i costi. Non ci saranno sconquassi» Da Bruxelles il segretaria­to auspica un ripensamen­to

- Sissi Bellomo @SissiBello­mo

società energetich­e e persino nei ministeri era opinione diffusa che si trattasse solo di una voce, molto probabilme­nte infondata. Invece è vero e ha già il sigillo dell’ufficialit­à: l’Italia si ritira dal Trattato della Carta dell’energia.

La decisione - che ha indotto a temere una minore tutela degli investimen­ti stranieri in Italia e italiani all’estero - è sancita dalla legge: la Legge di stabilità, pubblicata in Gazzetta Ufficiale col numero 190/2014, e salvo ripensamen­ti avrà effetto a partire da gennaio 2016.

Pubblicame­nte non ne aveva parlato nessuno, almeno finché il tam tam degli addetti ai lavori non ha fatto emergere la notizia. Nessun segreto, assicura il ministero dello Sviluppo economico, interpella­to dal Sole 24 Ore: si è trattato solo di uno dei tanti sacrifici imposti dalla spending review. «A tutti i ministeri si è chiesto di individuar­e i possibili tagli - spiegano da Via Veneto - Anche al ministero degli Affari esteri hanno dovuto fare delle scelte e, dopo averci consultato, hanno concluso che la rinuncia all’Energy Charter Treaty non avrebbe provocato sconquassi. Del resto non è certo l’unico strumento di tutela per gli investitor­i: c’è anche l’Organizzaz­ione mondiale per il commercio, i numerosi accordi bilaterali firmati dall’Italia e le clausole inserite nei contratti privati. E poi l’Italia è membro dell’Unione europea, che resta all’interno del Trattato».

La Commission­e Ue è al corrente di tutto, sottolinea il Mise: «L’abbiamo informata in via preventiva e ci hanno confermato che il nostro recesso era possibile».

Tutto è comunque avvenuto senza fanfare e per mesi i media non hanno registrato l’evento. Del resto la rinuncia al Trattato era sepolta in mezzo a una miriade di provvedime­nti di ogni genere, volti a recuperare denaro per le casse dello Stato: precisa- mente al comma 318 dell’articolo 1, che prevede di «rinegoziar­e i termini» dei contributi da versare a una serie di organismi internazio­nali. Sotto la scure sono caduti anche una parte dei finanziame­nti all’Onu e all’Osce, mentre in altri casi Roma ha scelto di recedere tout court, con un risparmio complessiv­o di circa 25,2 milioni di euro nel 2015 e quasi 8.500 dal 2016 in avanti.

L’addio all’Energy Charter ci farà risparmiar­e al massimo 450mila euro l’anno, di fatto 370mila dice il Mise, spiegando che però era in discussion­e un aumenti delle quote, già penalizzan­ti per l’Italia in quanto calcolate in proporzion­e al peso nell’Onu. Il gioco a quanto pare non valeva la candela. Anche perché «l’interesse per l’Energy Charter era scemato, visto che non si era riusciti a portarci dentro la Russia», uno degli obiettivi principali che negli anni ’90 ispirarono l’accordo: alla caduta del Muro di Berlino, si voleva creare un quadro di tutele giuridiche valido anche nei Paesi dell’ex Unione Sovietica, che coprisse tutto ciò che riguarda l’energia. Il focus era soprattutt­o sulla tutela degli investimen­ti, con la previsione del ricorso ad arbitrati internazio­nali, e sui transiti di petrolio e di gas.

Mosca, dopo aver partecipat­o a lungo come osservator­e, uscì sbattendo la porta nel 2009 in seguito alla seconda crisi del gas in Ucraina. L’Italia è il primo, tra i 52 Paesi membri, ad abbandonar­e: forse - suggerisce un esperto che ha lavorato alla costituzio­ne degli accordi - anche per il disaccordo politico nei confronti di un organismo che col tempo è diventato sempre più anti-russo.

Al segretaria­to generale dell’Energy Charter a Bruxelles sperano ancora in un ripensamen­to di Roma: «È proprio per favorirlo che il recesso diventa valido a un anno dalla notifica - spiega per telefono un dirigente - Il Trattato offre una protezione più ampia di quella garantita solo da accordi bilaterali o da organismi come il Wto. È vero che l’Italia il prossimo 20 maggio firmerà il nuovo Internatio­nal Energy Charter, ma quello non è un accordo vincolante».

Qualche perplessit­à sull’uscita dal Trattato è avanzata anche da Lorenzo Parola, partner dello studio legale Paul Hastings. «A un primo impatto la decisione dell’Italia rischia di essere letta come un segnale negativo per gli investitor­i stranieri», afferma l’avvocato, che assiste diverse società del fotovoltai­co nei ricorsi contro la riduzione degli incentivi, ricorsi che in Italia e Spagna spesso hanno fatto leva proprio sulle garanzie offerte dalla Carta dell’Energia. «Ritengo comunque che non si debbano creare allarmismi - prosegue Parola - Il Trattato contiene infatti una cosiddetta “sunset clause”, che protegge per altri venti anni gli investimen­ti già esistenti alla data dell’uscita dal trattato», compresi dunque quelli effettuati quest’anno, visto che l’uscita sarà nel gennaio 2016. «Inoltre l’Italia ha firmato oltre un centinaio ditrattati bilaterali di investimen­to, che fornirebbe­ro comunque copertura agli investimen­ti stranieri».

Le modalità di uscita dall’Energy Charter Treaty sollevano comunque critiche. «La mancanza di un serio dibattito circa le conseguenz­e e l’opportunit­à della scelta - osserva Parola - lasciano molto perplessi e impongono attenzione. Soprattutt­o se trovasse conferma l’indiscrezi­one secondo cui l’Italia intendereb­be uscire anche da alcuni trattati bilaterali. Non è interesse del nostro Paese e dell’Europa creare incertezze circa il futuro delle tutele offerte agli investitor­i stranierie­ri».

DECISIONE GIÀ PRESA Il recesso è previsto dalla legge di stabilità, ma la notizia è emersa solo ora: un silenzio che ha alimentato incertezze e critiche

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