Strada stretta per rispettare gli impegni con l’Europa
Per convenzione europea, il costo delle sentenze che producono oneri per la finanza pubblica (relativamente al pregresso) pesa per buona parte sull’esercizio in cui viene disposta la cancellazione della norma contestata. Dunque la conseguenza immediata della decisione della Consulta in merito al blocco della perequazione disposta nel 2012 e 2013 dal governo Monti per trattamenti superiori a tre volte il minimo Inps, è che il deficit 2015 rischia di scivolare pericolosamente al di sopra del tetto massimo del 3 per cento. Si parte da un “tendenziale” del 2,5%, e nella fondata previsione che l’impatto della sentenza si collochi attorno agli 8,7 miliardi per sanare gli arretrati 2012-2013 e 2014 il nuovo target passerebbe al 3-3,1% del Pil, inserendo nel conteggio anche la quota di 1,9 miliardi che grava sul 2015.
Il tutto nell’ipotesi che il governo decida di finanziare in deficit le somme da restituire a circa 6 milioni di pensionati. Strada teoricamente possibile, ma non priva di rischi, come ammette implicitamente il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan quando fa sapere che il primo obiettivo del governo è “minimizzare” gli effetti della sentenza sulla finanza pubblica. Qualsiasi altra spesa imprevista o un minor gettito andrebbero a quel punto compensati con misure aggiuntive. È il caso dell’imminente stop di Bruxelles all’estensione del «reverse charge» alla grande distribuzione. Il Mef è al lavoro per evitare che dal 1° luglio scatti la clausola di salvaguardia sotto forma di aumento delle accise per 700 milioni. È chiaro che se tutti gli spazi in termini di maggior deficit possibile (comunque entro la soglia del 3%) fossero ipotecati per rimborsare i pensionati, quella minore entrata andrebbe coperta con pari tagli alla spesa o contestuali incrementi del prelievo fiscale.
La strada è stretta, una decisione va adottata rapidamente e prende corpo l’ipotesi di dimezzare l’impatto per il 2015 riducendo al 50% il flusso di indicizzazione da restituire. La Commissione europea attende informazioni dettagliate già per l’inizio della prossima settimana (lunedì è in programma la riunione dell’Eurogruppo), così da poterle incorporare nelle raccomandazioni che verranno diffuse tra mercoledì e giovedi. Si cerca la soluzione nelle pieghe del dispositivo della sentenza con l’occhio rivolto ai margini offerti dalla disciplina di bilancio europea. L’eventuale ricorso a emissioni di titoli di Stato (ipotesi remota) scaricherebbe del resto il costo dell’operazione direttamente sul debito, vanificando però con il conseguente aumento della spesa per interessi il “dividendo” atteso dal calo dei tassi e dello spread. Strada che pare peraltro preclusa dagli impegni che lo stesso governo ha appena assunto per rispettare la «regola del debito». Dal 132,5% del 2015 (che per la Commissione Ue sarà invece al 133,1%)si dovrà scendere al 130,9% nel 2016 e al 127,4% nel 2017.
Se qualificata come «una tantum», la maggiore spesa riferita al 2015 peserebbe peraltro sul deficit nominale e non sul saldo strutturale, salvaguardando con ciò formalmente il percorso verso l’«obiettivo di medio termine», in direzione del pareggio di bilancio e aprendo la strada a un via libera da parte della Commissione europea. L’eventuale restituzione a rate rientra nelle opzioni che Bruxelles affida, come pare opportuno che sia, alla discrezionalità delle scelte proprie dei singoli paesi.
Risolta in tal modo con un complesso esercizio tecnicocontabile la questione del pregresso, il finanziamento degli ulteriori effetti della sentenza per il biennio 20162017 (altri 7 miliardi) andrebbe affidato alla prossima legge di stabilità. Nel mezzo vi è l’appuntamento con l’assestamento di bilancio di fine giugno, che dovrà recepire gli effetti dell’operazione per l’anno in corso, e l’aggiornamento delle stime di finanza pubblica da predisporre per metà settembre.
Come si vede, la questione è complessa, la soluzione tutt’altro che semplice. Se si considera che con la legge di stabilità sono già “prenotati” 10 miliardi della «spending review» per evitare l’aumento dell’Iva e delle accise dal 1° gennaio 2016, l’interrogativo è come si riuscirà a finanziare quest’altra ingente spesa.