Piccolo mondo antico d’oltre Manica scosso dall’Europa
tutta colpa dell’Europa. Se Londra si trova oggi a fare i conti con una realtà politica che dà segni di stanchezza verso il bipartitismo, ribadendo la voglia di coalizione, è Bruxelles l’involontaria responsabile. Un paradosso? Nella esemplificazione dell’enunciato certamente, nella realtà dei fatti molto meno. La campagna elettorale britannica ha avuto un grande assente: Europa non ha trovato spazio nei maggiori temi del dibattito messo in scena, ma è il convitato di pietra di una rivoluzione politica che potrebbe cambiare per sempre gli equilibri del Regno Unito, minacciandone l’esistenza stessa.
Il vento della politica continentale s’è insinuato nelle isole britanniche come mai prima d’ora. Ragionando oltre l’esito che dirà lo scrutinio in corso, la contrapposizione storica fra due forze - conservatori e liberali prima, conservatori e laburisti ora - è mutata in un’offerta politica più ampia, più sofisticata, più moderna, ma molto meno pragmatica. Più europea, molto meno british, con un elettorato che minaccia di distribuire favori a cinque partiti, lontano dalla sostanziale totalità del consenso che negli anni Cinquanta si dividevano Tory e Labour. I numeri esatti li conosceremo oggi, ma il trend è una realtà già evidente che tende ad accentuarsi distorta dal meccanismo elettorale maggioritario “first past the post”, oliato su una macchina politica che contempla due forze.
Oggi sono molte di più, almeno quattro forse cinque, e a crearle, nella dimensione attuale, è stata l’Europa, o meglio l’effetto che l’integrazione europea ha avuto sul piccolo mondo antico - ma tanto rassicurante - delle terre oltre la Manica. L’United kingdom independence party di Nigel Farage, al di là dei deputati che riuscirà a mandare a Westminster colpito come sarà dal maggioritario e dal “voto tattico” adottato dagli elettori di destra per contenere l’avanzata laburista, ha vinto le europee dello scorso anno. È un partito nato solo in chiave di contrapposizione con Bruxelles. Esiste perché esiste l’Unione europea. Conseguenza indotta dell’integrazione ? È evidente.
Simili, ma opposte considerazioni merita il clamoroso successo - storico se sarà confermato nella misura annunciata dagli exit poll - dei nazionalisti scozzesi. È inimmaginabile un’analoga pulsione alla secessione dal Regno se non ci fosse il rassicurante ventre dell’Ue ad accogliere le terre oltre il Vallo di Adriano. I nazionalisti scozzesi sono ultraeuropeisti - molti anche pro euro - e la prospettiva di abbandonare l’unione con Londra ha preso forza solo perché un futuro in solitudine si può stemperare nel comune destino europeo. Nuovo vigore, l’Snp, lo ha trovato anche nella minaccia del referendum sull’adesione all’Ue che il premier uscente e probabilmente rientrante, David Cameron, intende realizzare, spingendo Londra verso un’azzardata e preoccupante sfida. Gli scozzesi non ci staranno mai e se quella consultazione davvero si farà, Edimburgo traccerà una trincea netta di pieno sostegno a Bruxelles, prologo a un’indipendenza che arriverà con ragionevole certezza e con buona pace per le macerie del Regno di Elisabetta II.
È evidente che se l’integrazione europea non fosse andata tanto avanti, quanto sta accadendo non si potrebbe raccontare e i bastioni della solitaria fortezza britannica rimarrebbero a protezione di isole incerte verso l’abbraccio continentale. Ovvio, ma sbagliato, perché questo è un ragionare azzoppato da troppi “se” e da troppi “ma”, è ipotesi di sostanziale irrealtà. L’errore, infatti, è credere che Londra abbia davvero una scelta, che possa affidarsi a un’Arcadia da eterno single in un mondo globalizzato. I conti, la Gran Bretagna, li fa con la modernizzazione di un mondo che cambia, molto più che con le ingerenze di un’Europa che avanza. E David Cameron sa bene che dalla storia non si esce, neppure con un referendum.