Istituto ancora poco utilizzato Con lo smart working il risultato è al centro del rapporto di lavoro
questi ultimi tempi si sta parlando molto di smart working. Anche in Italia molte aziende - soprattutto multinazionali - lo hanno già adottato. In sintesi, si tratta di concedere ai propri dipendenti di poter lavorare da casa o da luoghi diversi dall’ufficio per un periodo variabile all’interno del mese (da qualche giorno sino a periodi anche più lunghi).
Negli Stati Uniti, come sempre avviene per le novità, si tratta di un metodo di lavoro già affermato, quasi una regola in molte aziende della silicon valley, ma non solo.
Ma perché in Italia non è una realtà ancora così diffusa ? Quali sono i problemi ?
Il problema è semplice: con lo smart working le aziende , in particolare i manager e i responsabili, devono rinunciare ad una prerogativa ormai classica del rapporto di lavoro: il controllo diretto della prestazione di lavoro dei collaboratori diretti. Ed è qui che le risorse umane incontrano spesso difficoltà a volte insormontabili.
E ciò perché con lo smart working viene meno il rispetto dell’orario di lavoro e l’obbligo di lavorare in un certo luogo (l’ufficio, il reparto, etc.) dove si è costantemente sottoposti al controllo della prestazione di lavoro in cambio – però - della fiducia che l’azienda ripone nei dei propri dipendenti (non più controllati dall’occhio del controllore..) nel raggiungimento del risultato della prestazione, e ciò indipendentemente dal luogo e dal tempo impiegato ad ottenerlo. Una cosa di non poco conto. Si tratta di un cambio quasi epocale per la nostra cultura aziendale: che dal controllo sulla prestazione ritorna al controllo del risultato della attività.
Ma le aziende sono pronte a questo passaggio ? difficile a dirsi. Ma questa è certamente la sfida vincente: quella di lavorare per risultati, includendo (me- glio, rimettendo) il risultato all’interno del contratto di lavoro, dello scambio lavoro/retribuzione, concetto questo ahimè troppo spesso dimenticato.
Ed infatti siamo ormai abituati (errore) a considerare il contratto di lavoro un contratto dove l’azienda “compra” delle ore/ lavoro del proprio dipendente, anziché un risultato atteso derivante dalla prestazione lavorativa svolta con la ordinaria diligenza dovuta rispetto alla attività richiesta (e allo status di quel collaboratore).
Abbiamo confuso il divisore mensile previsto dai contratti collettivi nazionali (le famose 160/170 ore ad esempio) per l’oggetto vero del contratto di lavo-
ATTIVITÀ FUORI SEDE La possibilità di operare in luoghi diversi dall’azienda sposta il controllo sul conseguimento degli obiettivi
ro, da qui la necessità imprescindibile del controllo diretto della prestazione/attività del collaboratore ad opera dei superiori.
Nulla di più sbagliato. basterebbe ricordare come in passato esistesse anche il cottimo, dove il dipendente veniva pagato a “pezzo” e pertanto proprio a risultato.
Orbene oggi non si tratta ovviamente di rimettere il cottimo nel contratto di lavoro - in particolare nelle più moderne settore dei servizi avanzati – bensì di riportare il risultato, e conseguentemente il rendimento , al centro del contratto di lavoro.
Ebbene, lo smart working potrebbe proprio essere la via giusta per cogliere questa opportunità: delle imprese e dei lavoratori, pronti a “giocarsi la sfida” del rendimento per liberarsi dalle catene dell’obbligo di un orario di lavoro e di un ufficio che troppo spesso viene criticato.