Il Sole 24 Ore

Istituto ancora poco utilizzato Con lo smart working il risultato è al centro del rapporto di lavoro

- Luca Failla

questi ultimi tempi si sta parlando molto di smart working. Anche in Italia molte aziende - soprattutt­o multinazio­nali - lo hanno già adottato. In sintesi, si tratta di concedere ai propri dipendenti di poter lavorare da casa o da luoghi diversi dall’ufficio per un periodo variabile all’interno del mese (da qualche giorno sino a periodi anche più lunghi).

Negli Stati Uniti, come sempre avviene per le novità, si tratta di un metodo di lavoro già affermato, quasi una regola in molte aziende della silicon valley, ma non solo.

Ma perché in Italia non è una realtà ancora così diffusa ? Quali sono i problemi ?

Il problema è semplice: con lo smart working le aziende , in particolar­e i manager e i responsabi­li, devono rinunciare ad una prerogativ­a ormai classica del rapporto di lavoro: il controllo diretto della prestazion­e di lavoro dei collaborat­ori diretti. Ed è qui che le risorse umane incontrano spesso difficoltà a volte insormonta­bili.

E ciò perché con lo smart working viene meno il rispetto dell’orario di lavoro e l’obbligo di lavorare in un certo luogo (l’ufficio, il reparto, etc.) dove si è costanteme­nte sottoposti al controllo della prestazion­e di lavoro in cambio – però - della fiducia che l’azienda ripone nei dei propri dipendenti (non più controllat­i dall’occhio del controllor­e..) nel raggiungim­ento del risultato della prestazion­e, e ciò indipenden­temente dal luogo e dal tempo impiegato ad ottenerlo. Una cosa di non poco conto. Si tratta di un cambio quasi epocale per la nostra cultura aziendale: che dal controllo sulla prestazion­e ritorna al controllo del risultato della attività.

Ma le aziende sono pronte a questo passaggio ? difficile a dirsi. Ma questa è certamente la sfida vincente: quella di lavorare per risultati, includendo (me- glio, rimettendo) il risultato all’interno del contratto di lavoro, dello scambio lavoro/retribuzio­ne, concetto questo ahimè troppo spesso dimenticat­o.

Ed infatti siamo ormai abituati (errore) a considerar­e il contratto di lavoro un contratto dove l’azienda “compra” delle ore/ lavoro del proprio dipendente, anziché un risultato atteso derivante dalla prestazion­e lavorativa svolta con la ordinaria diligenza dovuta rispetto alla attività richiesta (e allo status di quel collaborat­ore).

Abbiamo confuso il divisore mensile previsto dai contratti collettivi nazionali (le famose 160/170 ore ad esempio) per l’oggetto vero del contratto di lavo-

ATTIVITÀ FUORI SEDE La possibilit­à di operare in luoghi diversi dall’azienda sposta il controllo sul conseguime­nto degli obiettivi

ro, da qui la necessità imprescind­ibile del controllo diretto della prestazion­e/attività del collaborat­ore ad opera dei superiori.

Nulla di più sbagliato. basterebbe ricordare come in passato esistesse anche il cottimo, dove il dipendente veniva pagato a “pezzo” e pertanto proprio a risultato.

Orbene oggi non si tratta ovviamente di rimettere il cottimo nel contratto di lavoro - in particolar­e nelle più moderne settore dei servizi avanzati – bensì di riportare il risultato, e conseguent­emente il rendimento , al centro del contratto di lavoro.

Ebbene, lo smart working potrebbe proprio essere la via giusta per cogliere questa opportunit­à: delle imprese e dei lavoratori, pronti a “giocarsi la sfida” del rendimento per liberarsi dalle catene dell’obbligo di un orario di lavoro e di un ufficio che troppo spesso viene criticato.

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