Province, le sei «incompiute» della riforma
Ritardi su individuazione delle funzioni, personale da spostare, criteri della mobilità e ricognizione dei posti liberi
pAlla fine è dovuta intervenire in prima persona Marianna Madia, ministro della Pa e della semplificazione, per garantire che «a tutti i dipendenti delle Province sarà assicurato lavoro e stipendio» perché «se i territori non faranno il loro lavoro, lo Stato ha strumenti e risorse per ricollocare il personale».
La precisazione ministeriale è importante, perché serve a spegnere un po’ i timori che pochi giorni prima erano stati rilanciati dalla Cgil quando ha evocato il «rischio-stipendi» a partire da giugno, ma segnala anche i tanti problemi che una delle riforme «qualificanti per l’azione del Governo» (definizione della stessa Madia) sta incontrando. Soprattutto, ma non solo, per la resistenza passiva messa in campo da parecchie Regioni, a cui toccherebbe il compito cruciale di decidere dove devono andare i servizi e il personale in uscita dalle Province alleggerite dalla legge Delrio.
Per misurare il problema basta una verifica al cronoprogramma ufficiale della riforma, tracciato dalle norme (legge Delrio e manovra 2015) e da una circolare di gennaio che oltre alla firma di Marianna Madia porta quella dell’allora inquilina degli Affari regionali, Maria Carmela Lanzetta. Sei degli undici passaggi chiave hanno già superato abbondantemente la scadenza senza registrare passi avanti nell’attuazione; per altri due, che erano in calendario per l’anno scorso, la macchina è ancora a metà del guado, e solo tre tappe sono state completate.
Il ritardo più grave pende sul capo delle Regioni. Entro l’8 luglio del 2014, quindi oltre 10 mesi fa, avrebbero dovuto disegnare la nuova geografia delle funzioni «non fondamentali» da attribuire alle Province, oppure da redistribuire fra le stesse Regioni e i Comuni del territorio. La prima reazione da parte di un gruppo di Regioni (Lombardia, Veneto, Campania e Puglia) è stata quella di fare ricorso alla Consulta, ma a fine marzo con la sentenza 50/2015 i giudici delle leggi hanno stabilito che la riforma non ha problemi di costituzionalità. Più efficace, quindi, si è dimostrata la resistenza passiva, portata avanti con la decisione di non decidere: finora solo quattro Regioni (Liguria, Toscana, Umbria e Marche) hanno approvato la loro legge di riordino, ma in genere queste “norme quadro” non fanno che avviare una catena di rimandi a provvedimenti successivi, senza che se ne intraveda la fine.
Se non si sa chi deve fare che cosa, è ovviamente impossibile stabilire quali dipendenti si devono spostare, e verso dove. Per far partire la giostra della mobilità, del resto, mancano ancora due provvedimenti fondamentali, in questo caso opera del Governo. Un decreto deve fissare i criteri per la mobilità all’interno del comparto degli enti territoriali, e un altro deve disciplinare gli spostamenti in settori diversi della Pubblica amministrazione: finora si è visto solo quest’ultimo, previsto già sei anni fa dalla riforma Brunetta, che ha innescato una polemica con i sindacati sul rischio di riduzioni alle buste paga dei diretti interessati e deve ancora ottenere il via libera della Corte dei conti.
In questa incertezza complessiva, le Province si sono naturalmente ben guardate dallo stilare gli elenchi nominativi del personale in soprannumero, mossa a fortissimo rischio di tensioni sociali soprattutto se non sono ancora chiare le destinazioni degli esuberi. Il portale della mobilità, che dovrebbe incrociare la domanda di lavoro dei provinciali in uscita con l’offerta di posti dalle altre Pa, è stato attivato dalla Funzione pubblica, ma finora in pochissimi si sono affacciati per avviare davvero gli scambi.
In questo mosaico senza tasselli, allora, l’unico aspetto finora attuato davvero rischia di essere la rideterminazione della dotazione organica, cioè i tagli del 50% per le Province e del 30% per le Città metropolitane imposti dalla legge di stabilità. Proprio qui si sono appuntate le critiche della Corte dei conti, che qualche giorno fa ha lanciato il sasso nello stagno: la legge di stabilità - hanno scritto in sintesi i magistrati contabili - ha misurato i tagli sull’idea che le Province si stessero alleggerendo di compiti e personale, ma così non è stato e rischia di non essere per lungo tempo. Secondo la Corte, per allontanare le ombre di dissesto serve un «riallineamento tra funzioni e risorse», ma è da escludere che il Governo ritorni sui propri passi in fatto di tagli. A prescindere dai tanti problemi vissuti in queste settimane dagli equilibri del bilancio pubblico, una revisione dei tagli significherebbe una rinuncia ufficiale ai “risparmi” più volte evocati con la riforma: risparmi sempre dibattuti, e ora più che mai a rischio nella palude dell’attuazione.
LE RESISTENZE PASSIVE Le Regioni avrebbero dovuto approvare le leggi con le quali indicare le nuove competenze ma solo quattro l’hanno fatto