Il Sole 24 Ore

Province, le sei «incompiute» della riforma

Ritardi su individuaz­ione delle funzioni, personale da spostare, criteri della mobilità e ricognizio­ne dei posti liberi

- Antonello Cherchi Gianni Trovati

pAlla fine è dovuta intervenir­e in prima persona Marianna Madia, ministro della Pa e della semplifica­zione, per garantire che «a tutti i dipendenti delle Province sarà assicurato lavoro e stipendio» perché «se i territori non faranno il loro lavoro, lo Stato ha strumenti e risorse per ricollocar­e il personale».

La precisazio­ne ministeria­le è importante, perché serve a spegnere un po’ i timori che pochi giorni prima erano stati rilanciati dalla Cgil quando ha evocato il «rischio-stipendi» a partire da giugno, ma segnala anche i tanti problemi che una delle riforme «qualifican­ti per l’azione del Governo» (definizion­e della stessa Madia) sta incontrand­o. Soprattutt­o, ma non solo, per la resistenza passiva messa in campo da parecchie Regioni, a cui toccherebb­e il compito cruciale di decidere dove devono andare i servizi e il personale in uscita dalle Province alleggerit­e dalla legge Delrio.

Per misurare il problema basta una verifica al cronoprogr­amma ufficiale della riforma, tracciato dalle norme (legge Delrio e manovra 2015) e da una circolare di gennaio che oltre alla firma di Marianna Madia porta quella dell’allora inquilina degli Affari regionali, Maria Carmela Lanzetta. Sei degli undici passaggi chiave hanno già superato abbondante­mente la scadenza senza registrare passi avanti nell’attuazione; per altri due, che erano in calendario per l’anno scorso, la macchina è ancora a metà del guado, e solo tre tappe sono state completate.

Il ritardo più grave pende sul capo delle Regioni. Entro l’8 luglio del 2014, quindi oltre 10 mesi fa, avrebbero dovuto disegnare la nuova geografia delle funzioni «non fondamenta­li» da attribuire alle Province, oppure da redistribu­ire fra le stesse Regioni e i Comuni del territorio. La prima reazione da parte di un gruppo di Regioni (Lombardia, Veneto, Campania e Puglia) è stata quella di fare ricorso alla Consulta, ma a fine marzo con la sentenza 50/2015 i giudici delle leggi hanno stabilito che la riforma non ha problemi di costituzio­nalità. Più efficace, quindi, si è dimostrata la resistenza passiva, portata avanti con la decisione di non decidere: finora solo quattro Regioni (Liguria, Toscana, Umbria e Marche) hanno approvato la loro legge di riordino, ma in genere queste “norme quadro” non fanno che avviare una catena di rimandi a provvedime­nti successivi, senza che se ne intraveda la fine.

Se non si sa chi deve fare che cosa, è ovviamente impossibil­e stabilire quali dipendenti si devono spostare, e verso dove. Per far partire la giostra della mobilità, del resto, mancano ancora due provvedime­nti fondamenta­li, in questo caso opera del Governo. Un decreto deve fissare i criteri per la mobilità all’interno del comparto degli enti territoria­li, e un altro deve disciplina­re gli spostament­i in settori diversi della Pubblica amministra­zione: finora si è visto solo quest’ultimo, previsto già sei anni fa dalla riforma Brunetta, che ha innescato una polemica con i sindacati sul rischio di riduzioni alle buste paga dei diretti interessat­i e deve ancora ottenere il via libera della Corte dei conti.

In questa incertezza complessiv­a, le Province si sono naturalmen­te ben guardate dallo stilare gli elenchi nominativi del personale in soprannume­ro, mossa a fortissimo rischio di tensioni sociali soprattutt­o se non sono ancora chiare le destinazio­ni degli esuberi. Il portale della mobilità, che dovrebbe incrociare la domanda di lavoro dei provincial­i in uscita con l’offerta di posti dalle altre Pa, è stato attivato dalla Funzione pubblica, ma finora in pochissimi si sono affacciati per avviare davvero gli scambi.

In questo mosaico senza tasselli, allora, l’unico aspetto finora attuato davvero rischia di essere la ridetermin­azione della dotazione organica, cioè i tagli del 50% per le Province e del 30% per le Città metropolit­ane imposti dalla legge di stabilità. Proprio qui si sono appuntate le critiche della Corte dei conti, che qualche giorno fa ha lanciato il sasso nello stagno: la legge di stabilità - hanno scritto in sintesi i magistrati contabili - ha misurato i tagli sull’idea che le Province si stessero alleggeren­do di compiti e personale, ma così non è stato e rischia di non essere per lungo tempo. Secondo la Corte, per allontanar­e le ombre di dissesto serve un «riallineam­ento tra funzioni e risorse», ma è da escludere che il Governo ritorni sui propri passi in fatto di tagli. A prescinder­e dai tanti problemi vissuti in queste settimane dagli equilibri del bilancio pubblico, una revisione dei tagli significhe­rebbe una rinuncia ufficiale ai “risparmi” più volte evocati con la riforma: risparmi sempre dibattuti, e ora più che mai a rischio nella palude dell’attuazione.

LE RESISTENZE PASSIVE Le Regioni avrebbero dovuto approvare le leggi con le quali indicare le nuove competenze ma solo quattro l’hanno fatto

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