Perequazione automatica sempre guidata dai conti pubblici
Si chiama «perequazione automatica», ma il nome non deve ingannare perché nella sua storia il meccanismo che deve adeguare il peso delle pensioni al costo della vita è stato tutt’altro che «automatico». Introdotto dal Governo Amato nel 1992, alla fine di uno dei tanti anni difficili vissuti dalla finanza pubblica italiana, il meccanismo di perequazione annuale in base al costo della vita che ha sostituito le più “dinamiche” rivalutazioni precedenti è stato poi ritoccato da quasi tutti i Governi, in forme diverse a seconda della della condizione dei conti pubblici: al punto che i tanti correttivi, più o meno temporanei, sono un termometro fedele della febbre che di volta in volta ha colpito i bilanci pubblici.
A fine 1997, per esempio, lo sforzo per portare l’Italia in Europa spinse il Governo Prodi a un blocco temporaneo delle rivalutazioni, che nel 1998 sono state congelate per tutti i titolari di pensioni superiori a cinque volte il minimo. Anche quella norma finì sui tavoli della Corte costituzionale, che però a quell’epoca respinse le obiezioni per «manifesta inammissibilità». Destino opposto a quello vissuto dal blocco-Monti, che aveva fissato il confine più in basso (tre volte il minimo) fermando le rivalutazioni per due anni, cioè il 2012 e il 2013.
Quando invece il quadro di finanza pubblica sembrava schiarirsi, le maglie della perequazione si allargavano. Nel 2008-2010, per esempio, la rivalutazione è stata garantita a tutti in maniera piuttosto larga, con un solo limite (75% del costo della vita, anziché 100%) per gli assegni superiori a cinque volte il minimo, ma nel 2011 si è tornato indietro prevedendo più scalini, che hanno limato un po’ anche gli aggiornamenti delle pensioni fra tre e cinque volte il minimo.
A questo punto è intervenuto il «salva-Italia» appena bocciato dalla Consulta, dopo di che si è tornati all’antico, con la scala della rivalutazione scritta a fine 2013 dal Governo Letta: come i sistemi del passato, a partire dal 2014 è stata assegnata un po’ di rivalutazione a tutti, ma con sacrifici più pesanti per le pensioni più alte: a partire da sei volte il minimo (3.005,58 euro lordi al mese nel 2015), infatti, l’aggiornamento è garantito solo per il 45 per cento.
Anche questa è una misura temporanea, che avrebbe dovuto cedere il passo alla vecchia rivalutazione a partire dal 2017. Ma la decisione dei giudici delle leggi ha cambiato ancora una volta le carte in tavola, e ha portato il Governo Renzi a rivedere il tutto mettendo in campo una nuova perequazione dal 2016: e tutto lascia pensare che, per gli assegni un po’ più alti, una rivalutazione più o meno piena rimarrà a lungo una chimera: anche se, con l’inflazione di oggi, il bilancio degli interessati cambierebbe di pochissimo.
IL PROBLEMA La rivalutazione ha sempre dovuto piegarsi alle necessità delle casse statali