La riforma fiscale via maestra per creare lavoro
Il rilancio del mercato del lavoro è certamente una delle priorità del nostro paese e quasi ogni governo degli ultimi 20 anni ha proposto una ricetta per attuarlo. Ricette per la verità non sempre riuscite, a dispetto dell’ultima di Renzi, che pur avendo sulla carta buone premesse, sì e dimostrata per ora efficace a metà. Il Jobs Act infatti è un progetto ambizioso e articolato, che nonostante qualche ombra, tra cui la riduzione delle tipologie contrattuali e il possibile inasprimento della conflittualità sulla fattispecie del licenziamento discriminatorio, presenta molti aspetti positivi, ossia l’eliminazione del rito Fornero, una drastica riduzione del potere discrezionale dei giudici e una migliore definizione dei casi di reintegra, divenuti ormai residuali.
I primi dati ci dicono comunque che nel primo trimestre del 2015 l’occupazione ha segnato un incremento consistente rispetto allo stesso periodo di riferimento del 2014, circa 319.000 posti di lavoro sono stati attivati da gennaio a marzo con un incremento di oltre il 138 per cento. Chiaramente per trarre un bilancio definitivo del Jobs Act non ci si può limitare ad esaminare un arco temporale così breve dalla sua entrata in vigore, purtuttavia è innegabile che c’era molta attesa per i primi dati sull’occupazione successivi alla riforma. Ebbene, alla luce di questi numeri, pare proprio che la flessibilità in uscita per i nuovi assunti, unita agli sgravi contributivi di cui alla legge di stabilità, abbia scosso la stagnazione del mercato. La riforma
STRADA OBBLIGATA Primi frutti dal Jobs act ma vanno ridotte le tasse per lavoratori e imprese; da rivedere i centri per l’impiego
Renzi punta molto sulla flessibilità in uscita, realizzata con la forte attenuazione delle tutele contro i licenziamenti arbitrari, e, con provvedimento separato inserito nella legge di stabilità, sullo sgravio contributivo per i neoassunti. Il passo è stato fatto nella direzione giusta, ma il Jobs Act ha bisogno di terreno fertile per attecchire.
Gli effetti sperati sull’occupazione infatti dovranno essere propiziati da una riforma fiscale che incida non solo sul costo del lavoro, ma sulle imposte in generale. Il nostro paese rimane ai primi posti in Europa per costo del lavoro, con una media di spesa di 28,1 euro per ogni ora di prestazione (in Europa si spazia dai 4 euro della Bulgaria ai 48,5 della Norvegia), ma a costituire un limite che incide gravemente sull’occupazione è la parte non salariale di questo importo, tra le più alte in Europa, ossia circa 9 euro vengono persi in costi che non entrano nelle tasche dei lavoratori, ma che gravano pesantemente su quelle delle imprese.
A tutto quanto sopra si somma una pressione fiscale eccessiva, che disincentiva l’impresa e che di certo frena gli investimenti in Italia, ci si riferisce all’Irap, all’Iva e all’Imu che, aggiungendosi alle tasse sul reddito, la rendono poco appetibile come polo produttivo. La via per rivitalizzare un mercato del lavoro asfittico passa dunque, non solo da una riforma delle norme giuslavoristiche, ma anche e soprattutto dalla poc’anzi auspicata riforma fiscale che dovrà ridimensionare il prelievo su tutte le fasce di cittadini, dalla forza lavoro agli imprenditori, adeguando quindi la parte non retributiva del costo del lavoro a quella degli altri paesi europei. Infine per favorire l’occupazione sarebbe auspicabile una revisione delle strutture pubbliche preposte a favorire l’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro, al riguardo basti pensare che solo il 5% delle risorse trova lavoro grazie all’intermediazione del collocamento pubblico.