Il Sole 24 Ore

Un bilanciame­nto delicato

La legge deve equilibrar­e le richieste del figlio e la privacy della madre

- Di Licia Califano

con cui verificare la volontà della donna, senza rischi per la sua riservatez­za e per la serenità della sua vita attuale.

Dal punto di vista della logica giuridica, per rispondere alla richiesta di flessibili­zzazione del diritto all'anonimato formulata dai giudici costituzio­nali, le vie possibili per verificare la volontà sono due, fermo restando che deve essere il figlio a chiedere di conoscere l'identità materna: a) la madre può, a prescinder­e da una concreta richiesta, dichiarare di rinunciare al proprio anonimato. In quel caso la dichiarazi­one giace fino a che non vi è specifica istanza da parte del figlio; b) la madre può essere interpella­ta per scegliere solo al momento della formalizza­zione della richiesta da parte del figlio.

Il testo base della Commission­e Giustizia, di prossima discussion­e in aula, ha previsto – correttame­nte, a mio avviso – entrambe queste possibilit­à, individuan­do tanto nella dichiarazi­one della madre che nell'interpello del figlio le modalità attraverso cui dare attuazione al diritto alla conoscenza delle origini biologiche. Ma il problema sta proprio nelle procedure individuat­e per raccoglier­e la volontà della madre e per verificarl­a nel caso di sua inerzia.

La scelta della Commission­e Giustizia di affidare agli ufficiali di stato civile la raccolta di queste dichiarazi­oni non minimizza i rischi connessi al trattament­o dei dati personali, anche sensibili, della donna. Sarebbe stato preferibil­e un unico registro nazionale gestito con le massime garanzie di riservatez­za e con un'unica procedura stabilita per legge o regolament­o: in questo senso, alcune proposte avevano individuat­o il Garante privacy come titolare del registro.

In secondo luogo, come ha correttame­nte osservato la Commission­e Affari costituzio­nali nel suo parere, la nuova procedura, affidata interament­e al circuito giurisdizi­onale dei Tribunali per i minorenni, deve però assicurare la massima riservatez­za della donna e ridurre al minimo i rischi privacy. Il senso, secondo me, è quello di suonare un campanello d'allarme rispetto a prassi e procedure d'azione che possono variare da Tribunale a Tribunale in maniera non uniforme nel territorio nazionale, a tutto svantaggio delle donne e della loro riservatez­za. Per capire di quali rischi si parla basta immaginare centinaia di certificat­i di assistenza al parto e centinaia di cartelle cliniche che vengono trasmesse da un ufficio a un altro, con modalità spesso non sicure e rispettose della privacy. Altrettant­o condivisib­ile l'osservazio­ne della Commissio- ne Affari costituzio­nali e della Commission­e Affari sociali sulla inopportun­ità di consentire libero accesso all'identità della donna in caso di morte. Accettare che l'identità della donna morta possa essere svelata è l'equivalent­e logico di ritenere che la sua volontà sia mutata poco prima di morire, una “presunzion­e di revoca” del tutto irragionev­ole e in contrasto con la più generale tutela dei dati delle persone defunte ed i corrispond­enti limiti come riconosciu­ti dal Codice privacy all'articolo 9. Meno comprensib­ile sarebbe una norma transitori­a volta presumibil­mente a precludere il diritto di accesso alle persone già adottate, vanificand­o così, di fatto, il senso della pronuncia dei giudici e dello stesso intervento normativo.

Non può esservi bilanciame­nto, e dunque, corretta applicazio­ne della sentenza della Corte, se si fa prevalere sempre e comunque la volontà del figlio su quella della donna (in vita o in morte). Anche la legittima scelta del legislator­e di prestare particolar­e attenzione alla volontà del figlio non può travolgere il rispetto delle scelte, certamente dolorose, delle donne.

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