Milano riparte, il filo che unisce le due Expo
Una sorta di “fil rouge”, altrettanto concreto che significativo, collega l’Expo in corso a Milano con l’Esposizione Universale allestita nel 1906 nel capoluogo lombardo. Questo legame consiste nella funzione preminente assunta oggi, allo stesso modo di allora, dalla città ambrosiana nell'ambito dell'economia italiana e delle sue prospettive. Ai giorni nostri Milano è infatti tornata a essere, con la realizzazione di quest’iniziativa di portata mondiale, quel polo di riferimento, per eccellenza, che aveva rappresentato, all’insegna di una processo di sviluppo e modernizzazione, nell’Italia d’inizio Novecento. Non solo. Essa ha ribadito, con nuove valenze e proiezioni, quella tradizionale vocazione internazionale che è uno dei propri tratti distintivi. Il binomio trasporticomunicazioni era stato il tema centrale della rassegna inaugurata a Milano nell’aprile 1906, in quanto concepita espressamente per celebrare l’apertura al traffico ferroviario della galleria del Sempione. Sia perché quel traforo alpino, fra la val d’Ossola e l’alta valle del Rodano, e il cui complesso lavoro di scavo venne definito “titanico” da Giovanni Pascoli in un suo poema, fu il risultato di una mirabile opera di tecnologia e di ingegneria civile. Sia perché si trattava, a quell’epoca, della più lunga galleria al mondo, per il transito di persone e merci su rotaia: ciò che concorse a migliorare sensibilmente i collegamenti fra l’Italia, la Svizzera, la Francia e la Germania meridionale.
In tal modo Milano rafforzò sia la sua posizione strategica di epicentro delle comunicazioni fra la Penisola e l’Europa centro-occidentale, sia il suo ruolo di principale fucina della nostra incipiente industrializzazione. D’altro canto, in quel periodo a capo dell’amministrazione civica, a Palazzo Marino, si trovava un importante imprenditore come Ettore Ponti e appassionato patron dell’Esposizione, all’insegna della cultura positivista e scientista, era stato Angelo Salmoiraghi, titolare dell’omonima Officina Filotecnica, vanto dell’ottica italiana. Messa in cantiere nell’ultima stagione della Belle Époque, tra le impronte del Liberty e del Floreale, ma in un periodo che già preludeva al futurismo, portato all’esaltazione di quanto fosse espressione di prorompente creatività e dinamismo, l’Esposizione milanese, estesa su un’area di un milione di metri quadrati, con 255 diversi padiglioni, costò dodici milioni di buone lire ma riscosse un largo successo di pubblico, con cinque milioni di visitatori, una cifra record per allora. Essa coincise inoltre con la fase economica più brillante dell’Italia liberale.
Non solo perché nel corso del 1906 si era nel mezzo di quella sorta di seconda rivoluzione industriale segnata anche nel nostro Paese dall’avvento della combinazione fra acciaio, elettricità, chimica di base e automobile. E che vide i prodromi della nascita della Confindustria e la fondazione della Confederazione generale del lavoro. Ma anche perché, nel giugno 1906, col ritorno al governo di Giovanni Giolitti, venne portata a compimento la conversione della rendita pubblica dal 5 al 3,75 per cento che, definita «un capolavoro di tecnica e politica finanziaria», valse a ridurre l’incidenza degli interessi sul debito pubblico. E ciò mentre le rimesse degli emigranti, insieme alle prime esportazioni di prodotti meccanici e non solo più tessili, stavano concorrendo all’attivo della bilancia dei pagamenti.
Oggi, naturalmente, il contesto è ben diverso. Ma il fatto che Milano sia tornata in auge, con un’Expo così impegnativa e ragguardevole, può tradursi (come tutti ci auguriamo) in un robusto impulso per il rilancio economico e più salde credenziali del nostro Paese. Purché anche la classe politica faccia a tal fine la sua brava parte.