Trattamenti legittimi, ma vanno conosciuti tutti i numeri
Un vulnus che è conseguenza forse inevitabile per una legge scritta di concerto dal governo di allora e dai sindacati: quella di non aver previsto il passaggio erga omnes dal più generoso sistema retributivo a un nuovo sistema di calcolo in cui le future prestazioni fossero correlate all’entità dei contributi effettivamente versati. Il problema non è nemmeno «quanto si spende» per un paese che invecchia, ma «come si spende». Lo attestano i dati che riporta il Sole24Ore: lo squilibrio è evidente. Non si vuole con questo legittimare la vulgata in base alla quale vanno comunque penalizzati quei dipendenti pubblici e privati che, dopo una vita di lavoro, sono andati in pensione con trattamenti liquidati attraverso il sistema retributivo. Quelle erano le regole in vigore, anche se in una materia come quella previdenziale, soprattutto alla luce della sentenza della Consulta che ha dichiarato illegittimo il blocco biennale disposto nel dicembre 2011 della perequazione per le pensioni oltre tre volte il minimo, è difficile che si possa – dati i vincoli di finanza pubblica – mettere in campo solo la logica dei «diritti acquisiti». Detto questo, lo squilibrio tra l’entità dei contributi versati e il valore delle prestazioni erogate che si sarebbero determinate con l’applicazione del metodo contributivo è nei dati che riportiamo qui a fianco. Alcuni esempi valgono a far capire di cosa stiamo parlando, nella premessa che nei casi più vistosi tale squilibrio raggiunge anche il 60 per cento. È il caso delle 47mila pensioni di anzianità erogate nel 2011 ad altrettanti lavoratori autonomi, con un esborso di 780 milioni, contro i 333 milioni che si sarebbero spesi con il metodo contributivo. Se volgiamo lo sguardo al lavoro dipendente, per 21mila pensioni di vecchiaia erogate in quello stesso anno (lo squilibrio in questo caso è dell’8%) si sarebbero risparmiati 52 milioni. Ma sono i trattamenti di anzianità a pesare di più, in un sistema che ha consentito negli anni del dissesto della finanza pubblica di lasciare il lavoro nel pubblico impiego dopo 14 anni, sei mesi e un giorno di attività. Secondo un rapporto di Confartigianato del 2011, sono 531.752 le pensioni di vecchiaia e di anzianità “attive” concesse in base alle norme varate nel 1973. Non è una caso che proprio negli anni del primo shock petrolifero comincia a determinarsi l’impennata della spesa pubblica non compensata da pari aumenti della pressione fiscale, poi amplificata a dismisura negli anni Ottanta. L’incidenza della spesa sul Pil è passata dal 29% del 1960 al 42% del 1980. La spesa delle amministrazioni pubbliche è passata dal 33,7% del 1970 al 42,2% del 1980, con le prestazioni sociali che salgono dal 12% del 1970 al 14,1% del 1980 e al 18,2% del 1990. Se nel 1960 il totale della spesa previdenziale e assistenziale era pari al 9,5% del Pil, nel 1990 esplodeva al 16,6 per cento.
Il tutto fino alla manovra Amato del 1992 che bloccò per un anno le pensioni di anzianità e i meccanismi di indicizzazione. Poi è partita la stagione delle riforme. Uno sguardo retrospettivo è
DIRITTI ACQUISITI Il ritardo nel passaggio al calcolo contributivo continua a vincolare una spesa che vale il 15-16% del Pil
quanto mai utile, quando si affronta il tema dei nuovi, possibili interventi sul fronte della previdenza. Così come vale la pena di ricordare che la riforma Monti-Fornero, magna pars del decreto «salvaItalia» varato il 4 dicembre 2011 per spegnere un incendio che stava travolgendo l’intera economia nazionale, garantisce ben 80 miliardi di risparmi entro il 2020. Se pur sottraiamo a questa somma i 12 miliardi miliardi impegnati per salvaguardare 170mila esodati, si tratta di un intervento che ha stabilizzato il sistema previdenziale, garantendo sostenibilità al debito pubblico. Anche i 18 miliardi di risparmi che derivano a regime dal blocco biennale delle indicizzazioni vanno conteggiati in quella cifra, ma vanno ora aggiornati in base alla spesa impegnata dal governo (2,1 miliardi nel 2015) per la restituzione una tantum di parte del mancato adeguamento a 3,7 milioni di pensionati. Pur con questi interventi, la spesa previdenziale è prevista in crescita del 2,7% nel 2019, contro l’incremento decisamente più contenuto (1,2%) del resto della spesa corrente.