Il prezzo politico da Grexit ai rifugiati
Il tempo a disposizione è agli sgoccioli, le casse di Atene sono vuote. I ricatti contrapposti lanciati da sistemi democratici e Governi sotto stress, alla ricerca di un’intesa necessaria ma riluttante, riducono tutti i margini di manovra negoziale e, soprattutto, la possibilità che alla fine si arrivi a un buon accordo, equilibrato e sostenibile.
La stessa logica paralizzante, che di fatto ruota intorno alla politica sterile dell'interdizione reciproca, anima in queste stesse ore anche il tentativo di costruire per gradi una politica comune di immigrazione, cominciando dalla gestione condivisa dell'emergenza rifugiati.
Si sapeva che il sistema delle quote, proposto da Bruxelles, incontrava la stentorea opposizione di Gran Bretagna, Spagna e Portogallo, dei tre baltici, della Polonia e di tutti i paesi dell’Est esclusi forse Bulgaria e Romania. Si credeva di sapere però che i tre Grandi, Germania, Francia e Italia, fossero comunque a favore. Dato essenziale, visto che l’entrata in vigore richiede una decisione a maggioranza qualificata: della popolazione Ue e di 14 Paesi su 28.
Hollande però si è sfilato con un no inequivocabile. «Ci sono persone che hanno diritto e altre che non hanno diritto all’asilo. Per questo rifiutiamo il concetto di quota. Ma se ci sono profughi diretti sempre negli stessi Paesi, come in Germania, Francia e Svezia, anche gli altri Paesi devono fare la loro parte. È questo che chiamiamo distribuzione». La Germania non ha fatto marcia indietro ma chiede un momento di «riflessione e approfondimento».
Dietro il voltafaccia del presidente francese ancora una volta ci sono le ragioni delle dinamiche democratiche: il successo del Front Nazional di Marine Le Pen e l’inattesa rimonta di Nicolas Sarkozy, antagonista molto ostico. Senza la Francia e salvo suoi ripensamenti, sarà difficile arrivare alla necessaria maggioranza della popolazione Ue. Come dire, presto le quote potrebbero finire in un cassetto.
La morale è scontata: crisi ed emergenze sono state, fino al crollo di Lehman Brothers, le molle decisive per far compiere all’Europa grandi passi avanti. Ormai sembra accadere il contrario, perché ai tradizionali conflitti di interessi socioeconomici si aggiungono, con la crescente interdipendenza tra Paesi, anche quelli politici, democratici, culturali ed elettorali. Governare l’Europa, insomma, diventa tanto difficile che la tentazione rinunciataria troppo spesso diventa irresistibile. Come i riflessi nazionali. Bisognerebbe armonizzare non solo i conti pubblici ma i tempi elettorali delle democrazie per fermare il declino. Ma questa oggi è pura fantapolitica.