L’archiviazione non stoppa il «raddoppio»
pL’archiviazione penale non fa venir meno il raddoppio dei termini di decadenza ma il giudice tributario deve impedire che il raddoppio sia utilizzato in maniera distorta dall’amministrazione ossia comunicando al pm notizie di reato manifestamente infondate al solo fine di beneficiare del più ampio termine. In tale contesto il giudice di merito deve negare l’applicazione del termine allungato in ipotesi di denuncia palesemente pretestuose, se non addirittura calunniose, rivelatrici di un uso distorto dell’istituto. Ad affermarlo è la Corte di Cassazione con la sentenza n. 9974/2015 che dovrebbe rappresentare il primo intervento sul raddoppio dei termini di decadenza da parte dei giudici di legittimità.
In sintesi, un contribuente, ricorreva per cassazione, lamentando tra l'altro che l’ufficio avesse indebitamente beneficiato della normativa sul raddoppio dei termini di decadenza dell’accertamento in quanto la sua posizione era stata archiviata dal giudice penale.
In sostanza, venendo meno la rilevanza penale del fatto, l’ufficio non poteva più beneficiare del termine lungo di rettifica. La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, affermando che l’avvenuta archiviazione della denuncia presentata dalla GdF non è di per sé stessa d’impedimento all’applicazione del termine raddoppiato, proprio perché non rileva né l’esercizio dell’azione penale da parte del pm mediante la formulazione dell’imputazione, né la successiva emanazione di una sentenza di condannaodiassoluzionedapartedel giudice penale, anche perché nel nostro ordinamento esiste il regime del «doppio binario» tra giudizio penale e processo tributario.
In tale contesto i giudici richiamano i principi enunciati dalla Corte Costituzionale nella nota ordinanza 247/2011.
In realtà la pronuncia della Suprema Corte non pare applicare appieno i principi enunciati dalla Consulta. È evidente che non si puòsubordinareaprioriilraddop- pio del termine di accertamento al rinvio a giudizio del contribuente oaddiritturaallasuacondannapenale, altrimentisideterminerebbe una sorta di subordinazione, del tutto illegittima, del rito tributario rispetto quello penale.
Il punto della questione, non esaminato dalla sentenza, è la configurazione in determinate circostanze (tra le quali anche l’archiviazione o la prescrizione del reato) della «palese infondatezza» dell’invio della notizia di reato, censurata dalla Consulta. Tale valutazione di palese infondatezza nona andrebbe fatta in astratto, comeevidenzianoigiudici, richiamandosi alla giurisprudenza penale, ma considerando anche lo spirito della norma che, nel 2006, ha introdotto il raddoppio.
Il termine lungo (per espressa previsione contenuta nella relazione illustrativa) deve consentire all’amministrazione di utilizzare gli esiti delle indagini penali, in genere più lunghi dei tempi di accertamento. Se le indagini penali non si possono certamente svolgere perchè l’archiviazio- ne o addirittura la prescrizione del reato sono intervenuti prima dell’accertamento non si comprendono le ragioni per le quali l’amministrazione debba fruire del termine lungo.
La sentenza, infine, sembra confermare l’orientamento secondo sui in assenza materiale di notizia di reato, non sia possibile beneficiare del raddoppio. Secondo i giudici di legittimità, infatti, la legge delega conferma i principi della Consulta introducendo limiti temporali più stringenti per l'operatività del termine di decadenza. E poiché la legge delega prevedechelanotiziadireatodebbaesserepresentataentroiltermine ordinario, anche in assenza di tale legge la denuncia deve essere semprepresentataancheseoltreil termine ordinario di decadenza. La delega infatti interviene solo sulla tempistica non sulle condizioni. Ne deriverebbe l’illegittimitàdegliaccertamentiemessientro il termine lungo nei confronti di contribuenti per i quali la denuncia non è mai stata inoltrata all’autorità giudiziaria. In caso contrario, come ricorda la Corte Costituzionale, si realizzerebbe una condotta penale in capo ai funzionari per omissione di denuncia.