Il Sole 24 Ore

Mobbing, il datore risponde per colpa

Risarcimen­to dei danni a carico dell’azienda anche se le iniziative vessatorie sono opera di un superiore gerarchico Per la Cassazione è responsabi­le nel caso di inerzia rispetto a comportame­nti noti

- Giuseppe Bulgarini d’Elci

pLa circostanz­a che le iniziative vessatorie riconducib­ili al mobbing siano state compiute da un dipendente in posizione di superiorit­à gerarchica rispetto alla vittima non costituisc­e una situazione idonea ad escludere la responsabi­lità del datore di lavoro ai sensi dell’articolo 2049 del codice civile, ove quest’ultimo sia rimasto colpevolme­nte inerte rispetto alla reiterazio­ne del comportame­nto illecito. La Cassazione afferma questo principio con la sentenza 10037/15, nella quale si ricollega il coinvolgim­ento datoriale per i danni arrecati da fatto illecito dei propri dipendenti ad una forma di responsabi­lità per colpa riconducib­ile al fatto che non erano state adottate misure volte ad eliminare il compimento delle iniziative vessatorie.

La Corte rimarca che la durata e la reiterazio­ne delle azioni perse- cutorie, unitamente alle modalità attraverso cui il responsabi­le gerarchico aveva posto in essere la condotta mobbizzant­e, erano tali da far ritenere che il datore di lavoro fosse a conoscenza delle iniziative ostili a cui era sottoposta la vittima. Da tale assunto deriva, per la Cassazione, che il datore di lavoro risulta responsabi­le per essere rimasto inerte a fronte del compimento dei fatti lesivi e che, pertanto, allo stesso sia direttamen­te ascrivibil­e, in aggiunta al soggetto aggressore, la condanna per il risarcimen­to dei danni sul piano psico-fisico sopportati dal dipendente/vittima.

La Cassazione era stata chiamata a pronunciar­si sul caso di una dipendente di un ente comunale, esposta alla sottrazion­e delle proprie mansioni, all’ingiustifi­cato spostament­o presso un ufficio aperto al pubblico, alla diretta subordinaz­ione ad un funzionari­o prima a lei sottoposto e ad una più generale emarginazi­one dal contesto lavorativo ed ambientale, con riflessi di cocente umiliazion­e per la dipendente. A causa delle iniziative vessatorie subite, la dipendente del Comune era rimasta vittima, tra gli altri effetti, di una psicosi paranoide di cui non aveva mai sofferto in passato.

Nella sentenza 10037/15 viene riconosciu­to che sussistono i tipici elementi che contraddis­tinguono e caratteriz­zano il “mobbing”, individuat­i dalla Suprema corte nei parametri costituiti dall’instaurazi­one di un ambiente ostile, dalla durata protratta nel tempo delle azioni vessatorie e dalla loro frequente ripetizion­e, dalla presenza di un intento persecutor­io e dalla subordinaz­ione gerarchica della vittima all’aggressore. La Cassazione ha attribuito, inoltre, rilievo alla dequalific­azione profession­ale subita dalla dipendente del Comune non in quanto condotta passibile di autonoma risarcibil­ità, ma in quanto elemento teso a confermare la sottoposiz­ione della vittima ad una più complessiv­a volontà mobbizzant­e dell'aggressore.

Sulla scorta di queste valutazion­i, la Cassazione ha confermato la sentenza resa dalla Corte d’appello de L’Aquila, che aveva esteso all’ente comunale, in qualità di datore di lavoro, il risarcimen­to dei dannisoppo­rtatidalla­dipendente.

È interessan­te rimarcare come la Cassazione pervenga a queste

NELLA SENTENZA Applicato l’articolo 2049 del Codice civile a favore di una dipendente comunale che si è poi ammalata

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