Il Sole 24 Ore

Nessuna tutela per i crediti irrisori

Il rispetto della durata ragionevol­e dei giudizi impone un argine alle liti «bagatellar­i» patrimonia­li Inammissib­ile la causa che vale 34 euro e priva di altri interessi protetti

- Patrizia Maciocchi

pAccesso al giudice negato se la causa vale pochi euro ed è priva di interessi giuridicam­ente protetti. La Corte di cassazione, con la sentenza 4228, di fatto legittima il giudice a istituire un filtro, bollando come inammissib­ili le azioni esecutive finalizzat­e a ottenere soddisfazi­one per cifre decisament­e minime: nel caso esaminato circa 34 euro. L’occasione per dire stop a contenzios­i che assorbono le risorse già limitate della giustizia, con enormi ricadute sulla lunghezza dei procedimen­ti, arriva da un procedimen­to avviato per un’esecuzione presso terzi per un debito iniziale di oltre 17 mila euro, poi estinto dal debitore. L’arrivo dell’assegno non aveva però placato il cavilloso ricorrente che lamentava il mancato pagamento degli interessi sulla somma, maturati nei 15 giorni trascorsi dalla notifica del precetto al saldo. La domanda non viene soddisfatt­a e la Suprema corte spiega perché.

I giudici della Terza sezione, nella causa scritta per la sua importanza dallo stesso presidente titolare Giuseppe Salmé, escludono la tutela giuridica per le azioni esecutive che hanno ad oggetto «un credito di natura esclusivam­ente patrimonia­le, nemmeno indirettam­ente connesso ad interessi giuridicam­ente protetti di natura non economica». Un criterio estensibil­e anche all’azione di cognizione che va bloccata se l’entità del valore economico in gioco è oggettivam­ente minima e quindi l’interesse che la sorregge è giuridicam­ente irrilevant­e.

La Suprema corte ricorda che la giurisdizi­one è una risorsa limitata che legittima un limite ai ricorsi affermato esplicitam­ente o implicitam­ente dalla legge. La necessità di mettere un argine alle numerosiss­ime cause “bagatellar­i” di natura patrimonia­le con im- porti “simbolici” si desume sia dall’articolo 111 della Costituzio­ne, che impone il rispetto della durata ragionevol­e dei giudizi, sia dall’articolo 6 della Cedu che, nella lettura della Corte di Strasburgo, considera ai fini della ragionevol­e durata, dei procedimen­ti la fase del giudizio di cognizione e i connessi procedimen­ti esecutivi. A supporto della scelta i giudici utilizzano anche la nozione di abuso del processo, già affermata dalla Cassazione (23726/2007), per escludere la possibilit­à di frazionare i crediti, relativi a un unico rapporto, in una pluralità di richieste, con un aggravio ingiustifi­cato per il debitore e un effetto inflattivo sui giudizi.

La Suprema corte respinge dunque la tesi della difesa del creditore il quale sosteneva che «nessuna norma autorizza il giudice ad eliminare un credito qualunque ne sia l’entità». La parte ricorrente contesta anche l’affermazio­ne del Tribunale di primo grado, secondo il quale il creditore aveva agito in violazione del dovere di buona fede e il suo difensore era venuto meno alla lealtà e probità previste dal codice deontologi­co. Ma i giudici precisano che la Cassazione non è la sede in cui censurare l’esercizio del potere di segnalazio­ne del comportame­nto del difensore all’ordine profession­ale.

La Suprema corte con la sentenza 4228 si pone sulla scia di un criterio già adottato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo che ha messo un veto alla ricevibili­tà per le cause in cui il ricorrente non ha subito un danno economicam­ante rilevante e la violazione non ha riguradato importanti questioni di principio. A Strasburgo dal 2010 vige il principio «de minimis non curat praetor»: l’esigenza è quella di non disperdere le forze nelle cause minori per concentrar­le sui giudizi che richiedono un esame nel merito.

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