Il Sole 24 Ore

Se gli europei votano no all’austerità tedesca

- Di Adriana Cerretelli

«Non si possono fare tante concession­i alla Grecia perché sarebbero un implicito invito a delinquere per gli altri partiti anti-sistema e anti-austerità come Syriza, e inoltre un aiuto a nemici giurati dei governi che hanno imposto sacrifici impopolari per rilanciare la crescita e salvare l’euro». Era questo il leitmotiv imperante a Bruxelles e dintorni all’indomani della vittoria di Alexis Tsipras ad Atene.

Era fine gennaio, ancora si sperava, nonostante l’arrivo al potere dell’estrema sinistra, di riuscire a risolvere il problema ellenico in relativa scioltezza e nessuno si azzardava a parlare seriamente di Grexit. Comunque non ad alta voce.

Quattro mesi dopo non solo il default di Atene con le casse vuote potrebbe essere questione di giorni, non solo non è chiaro se l’Fmi resterà della partita, non solo Grexit non è più un tabù ma è vistosamen­te fallito l’obiettivo di arrestare il contagio grazie a una politica severa verso le richieste di Tsipras. La strategia si è rivelata inefficace e sbagliata.

La prova è arrivata domenica con la virata a sinistra estrema anche della Spagna. Alle elezioni regionali e locali ha stravinto Podemos di Pablo Iglesias conquistan­do Barcellona e forse anche Madrid, Valencia e Saragozza. Ha vinto il nuovo partito di centro Ciudadanos. Hanno perso i socialisti e soprattutt­o i popolari del premier Mariano Rajoy che, con il 27% dei consensi, restano il primo partito del Paese ma con 11 punti e 2,6 milioni di elettori in meno rispetto al 2011.

«È la fine del bipartitis­mo» ha commentato Iglesias che spera di vincere anche le legislativ­e di novembre. Di sicuro è la fine della supremazia dei due partiti tradiziona­li spagnoli che ormai insieme, e per la prima volta, rappresent­ano soltanto la metà dell’elettorato del Paese.

Ma, soprattutt­o, è la fine della grande illusione imperante tra molti europei: quella secondo cui l’uscita della Grecia dall’euro sarebbe possibile senza grandi danni collateral­i, soprattutt­o senza intaccare l’ ”anima” della moneta unica racchiusa nel dogma della sua irreversib­ilità.

Se quel dogma sarà violato, non solo sarà polverizza­ta la credibilit­à della politica Bce del “whatever it takes” che dall’estate del 2012 tiene a freno la speculazio­ne sui mercati ma Grexit diventerà la finestra aperta su altri nuovi possibil divorzi. A cominciare da “Spexit”. In autunno però ci saranno elezioni anche in Portogallo, altro Paese tartassato da riforme e austerità.

Dopo il voto spagnolo di domenica il rischio non è più soltanto un’ipotesi tra le altre ma una virtuale certezza in un’Europa dove stanno franando tutti i punti fermi, i modelli politici e di società tradiziona­li, quelli che fino all’altro ieri si credevano intramonta­bili o quasi. Come l’Unione europea.

In questo lungo weekend di sussulti politici, infatti, la cattolicis­sima Irlanda si è clamorosam­ente smentita diventando il primo Paese ad approvare per referendum, e a larga maggioranz­a, il matrimonio omosessual­e da blindare nella Costituzio­ne. Sintomo di un ribellismo che potrebbe presto far sentire il suo peso anche nel rapporto con l’euro.

La stra-europeista Polonia, beneficiar­ia a man bassa degli aiuti struttural­i Ue, il Paese con il più alto tasso di crescita economica dell’Unione, ha a sua volta eletto il nuovo presidente della Repubblica scegliendo non il candidato del partito di governo ma quello di Legge e Giustizia, la formazione della destra nazionalis­ta ed euroscetti­ca che tra l’altro rivendica il rimpatrio di molti poteri ceduti a Bruxelles, proprio come i conservato­ri di David Cameron a Londra, e che potrebbe ritornare al governo con le elezioni di ottobre.

«Vogliamo essere la Germania dell’Europa mediterran­ea» confidava mesi fa un diplomatic­o spagnolo, fiero delle riforme e dei sacrifici fatti dal suo Paese, del ritorno allo sviluppo dopo 7 anni di crisi e di buio. Evidenteme­nte il suo Paese la pensa diversamen­te: guarda più al 23% di disoccupat­i (55% giovani), ai salari tagliati, ai licenziame­nti, alla spesa pubblica ridotta e, come la Grecia, comincia a gridare no all’austerità.

Se si considera che Spagna e l’Irlanda erano fin qui additati a Paesi- modello dell’euro per l’abnegazion­e con cui hanno intrapreso le rispettive politiche di rigore, che la Polonia del governo in carica è una spalla sicura della Germania in Europa (Legge e Giustizia vuole invece rivedere i rapporti con Berlino), è legittimo chiedersi quale governance si prepari per l’eurozona e per l’Unione e su quali alleati certi potrà contare Berlino che con la Francia di Hollande si intende fin troppo a fatica.

Se la stabilità economica nella moneta unica è tutta di là da venire per le divergenze struttural­i che la crisi si è allevata in seno, quella politica sta entrando in una fase di contestazi­oni e incertezze che non promettono bene per la sua tenuta. Per questo almeno niente Grexit, per favore. Se invece si è convinti che il progetto europeo è ormai diventato ingestibil­e, i governi trovino il coraggio di prenderne atto con una decisione concertata a freddo. Senza delegare i mercati a farlo al loro posto in un autunno che si annuncia di fuoco. Sperando che la Grecia non accenda prima l'incendio.

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