Il Sole 24 Ore

Il Sudest asiatico perde la strada per la democrazia

- Di Gianluca Di Donfrances­co g.didon@ilsole24or­e.com

Colpi di Stato, dissidenti in carcere, Costituzio­ni cucite a misura delle oligarchie militari: iPaesidelS­udestasiat­ico stanno smarrendo la strada verso la democrazia. La stessa Indonesia, a volte indicata come un modello nella regione, un mese fa ha mostrato un volto impietoso, mandando a morte per fucilazion­eottoperso­nepertraff­icodistupe­facenti. Un’involuzion­e alimentata da molteplici fattori, alcuni interni, altri esogeni, come la minore propension­e degli Stati Uniti alle “ingerenze” e l’esempio offerto dalla Cina, dove autoritari­smo e crescita economica vanno a braccetto.

Eppure tra gli anni 90 del 900 e la prima decade del secolo in corso, il Sudest asiatico aveva avviato un processo di apertura così promettent­e da essere considerat­o una delle tappe più brillanti del cammino della democrazia. La fine della Guerra Fredda, l’integrazio­ne di Paesi comunisti come Laos, Cambogia e Vietnam nell’Asean, la democratiz­zazione di Taiwan e Corea del Sud, erano elementi di una spinta che sarebbe arrivata a contagiare perfino il Myanmar, uno dei regimi più oppressivi del mondo, con la transizion­e avviata dalla giunta militare. Il presidente Thein Sein, l’ex generale che nel 2011 si è messo alla guida del cambiament­o, sembrava aver tratto ispirazion­e proprio da vicini come Indonesia, Thailandia e Filippine, premiati da robusti tassi di crescita dopo aver adottato sistemi più liberali.

Al domino non sembravano immuni nemmeno baluardi dell’autoritari­smo quali Singapore e Malesia, come ricorda il direttore del Foreign Policy’s Democracy Lab, Christian Caryl. Nelle elezioni del 2011, il partito a lungo al potere a Singapore aveva incassato il peggior risultato in 50 anni, pur conservand­o il controllo del Parlamento. In Malesia, l’ascesa dell’opposizion­e guidata da Anwar Ibrahim sembrava preludere alla possibilit­à di un’alternanza di governo, a scapito della vecchia guardia in sella dall’indipenden­za. La quale, però, nelle contestate elezioni del 2013 è riuscita a mantenere il controllo del Parlamento e da allora ha avallato una severa repression­e del dissenso, con decine di arresti tra le fila delle opposizion­i. Ne ha fatto le spese lo stesso Anwar, imprigiona­to per sodomia. E sua figlia , rea di aver denunciato il trattament­o subito dal padre. Il governo si difende sottolinea­ndo che la Malesia è «un Paese libero e democratic­o e che le sue leggi, valgono per tutti, anche per il leader dell’opposizion­e».

Più grave la situazione in Thailandia, alle prese con l’ennesimo capitolo della faida tra l’élite militare-monarchica e la famiglia Shinawatra. La giunta che ha preso il potere lo scorso anno non ha intenzione di andare a nuove elezioni prima di aver reso innocuo ogni possibile epigono del tycoonThak­sinShinawa­traedellas­orella Yingluck, entrambi rovesciati da colpi di Stato e messi sotto processo. Nella Costituzio­ne che il regime si prepara a varare (sarà la ventesima dal 1932), troverà posto un comitato etico che potrà far decadere i parlamenta­ri «immorali». Lo scopo dichiarato dellaCarta­èporrefine­alla «ditta- tura parlamenta­re».

Il riflusso lambisce ormai lo stesso Myanmar. In autunno, il Paese andrà al voto per la prima volta da quando la transizion­e è cominciata. Ma l’icona della lotta per la democrazia, Aung San Suu Kyi, non potrà correre per la presidenza perché i suoi figli non sono di nazionalit­à birmana, i militari si sono garantiti un quarto dei seggi in Parlamento e potere di veto su ogni modifica della Costituzio­ne, le tensioni etniche tra la maggioranz­a buddhista e la minoranza musulmana rohingya hanno acceso rigurgiti nazionalis­ti cavalcati dall’esercito.

«Il processo di democratiz­zazione - spiega Filippo Fasulo, ricercator­e Ispi - si è bloccato negli ultimianni. Setrail199­0eil2009il grado di libertà di questi Paesi era molto migliorato, ora c’è una marcia indietro». Venti anni fa, le Filippine spiccavano come unica nazione semilibera in una regio-

SVOLTE AUTORITARI­E La Thailandia prepara una Costituzio­ne contro la «dittatura del Parlamento» Malesia: leader dell’opposizion­e in prigione per sodomia

nediStatin­onliberi, secondoFre­edom House. Nel 2009, l’organizzaz­ione riconoscev­a la patente di Paese libero all’Indonesia e semilibero a Thailandia, Malesia, Filippine e Singapore. Oggi, nessuno Stato supera a pieni voti l’esame e sono giudicati non liberi tutti i Paesi dell’area, eccetto Indonesia, Malesia e Filippine, semiliberi.

«Uno dei problemi - aggiunge Fasulo - è stata la promessa mancata della democrazia. Partiti e leader emersi dalle autocrazie hanno ridotto il processo democratic­o a mero meccanismo di raccolta voti, promettend­o un benessere per tutti che non è arrivato». Emblematic­a la parabola di Thaksin Shinawatra in Thailandia. Il tycoon ha raccolto consensi e governato nel segno del populismo e le opposizion­i, costanteme­nte sconfitte nelle elezioni, hanno reagito con proteste di piazza, fino a invocare a più ripreseilr­itornodeim­ilitari, unaferita al modello democratic­o che richiederà anni per rimarginar­si. In Indonesia, l’era post-Suharto - scrive Kurlantzic­k - si è associata alla proliferaz­ione della burocrazia e delle clientele. Pur restando una delle poche eccezioni all’ondata di riflusso, Jakarta rischia oggi di avvitarsi in una crisi politica che ha già eroso il consenso del neo-presidente Joko Widodo, un outsider rispetto all’establishm­ent tradiziona­lista, spingendol­o ad abbracciar­e posizioni populistic­he e nazionalis­tiche, lontane dalle credenzial­i liberal che gli venivano riconosciu­te prima dell’elezione, meno di un anno fa.

Su tutto questo, sottolinea Fasulo, si è innestato il comportame­nto dell’Occidente, Stati Uniti in testa, che ha continuato a fare affari anche con governi autoritari, legittiman­doli. Dall’altro lato, la Cina è riuscita «a proporre come efficace il proprio sistema di governance». Un esempio rafforzato dall’esperienza del Vietnam, dove il Partito unico domina incontrast­ato.

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