Più attrezzati sui mercati perché capaci di investire
Una prima novità strutturale, emersa da poco con evidenza dalle statistiche, è l’esistenza – sui mercati globali – di una internazionalizzazione munita (finalmente) di due gambe. C’è l’export. E ci sono anche gli investimenti diretti all’estero. Negli ultimi dieci anni gli osservatori contrari all’ipotesi di declino del nostro capitalismo manifatturiero – desumibile da una lettura main stream dei dati macro sull’economia italiana – hanno usato come perno concettuale delle proprie tesi prima di tutto l’andamento dell’export. Nei loro ragionamenti, una economia avanzata che riesce a vendere così bene – anche in valore – i propri prodotti non può avere un profilo caduco e cadente. Il +7,7% registrato nei primi quattro mesi dell’anno rispetto allo stesso periodo del 2014 nei flussi commerciali extra Ue (storicamente i meno consistenti, per una economia eurocentrica come la nostra) mostra la fibra robusta e persistente di una specializzazione economica a cui sembra essersi aggiunto ciò che che, negli ultimi 25 anni, è mancato: la capacità (e la voglia) di insediarsi all’estero. Non solo per i big player. Ma anche per le Pmi. Sotto questo profilo, la conferma della natura exportoriented della nostra economia appare rafforzata anche dalla nuova vocazione investment-oriented: 12,5 miliardi di euro nel 2014, il triplo del 2014, secondo la banca dati Reprint. Ancora poca cosa rispetto ad altri concorrenti, Germania in testa. Ma, in ogni caso, una dinamica che – unita appunto alla robustezza dell’export – induce all’ottimismo.