«Made in»: resta lo scontro in Europa
Oggi a Bruxelles si svolgerà il Consiglio Competitività che dovrà decidere sul regolamento consumatori Il nostro Paese chiede l’applicazione per cinque settori, la Lettonia ne propone due
L’Italia non arretra sul “Made in”. Oggi a Bruxelles si terrà il Consiglio Competitività per decidere sul regolamento consumatori: Roma chiede l’etichetta per cinque settori, la Lettonia ne propone due.
p «L’Italia non intende mollare la presa. L’etichettatura di origine dovrà avere un perimetro che tiene conto dei pareri positivi emersi dallo studio di valutazione chiesto dai Paesi più riluttanti e avallato dalla Commissione. E questi settori sono: calzature, tessile, ceramica e – per esplicita adesione volontaria al dossier che inizialmente non li ricomprendeva – anche arredo e oreficieria».
In partenza per Bruxelles – dove questa mattina si tiene il Consiglio Competitività che dovrà, tra le altre cose, prendere una decisione sul regolamentoconsumatori (esu ciò che ne ostacola il via libera cioè lo stallo sul “Made in”) – ieri a Milano il viceministro Carlo Calenda ha sottolineato che l’Italia non intende negoziare un “Made in” più asciutto rispetto a quello emerso dal sondaggio della Commissione.
Ma la partita è tutta sul raggio di azione da attribuire al “Made in”. E le posizioni restano inconciliabili.
La Commissione Ue – preso atto dell’esito dello studio di impatto sui costi/benefici del “Made In” – aveva individuato 3 settori apertamente favorevoli al “Made in”: calzature, ceramica e tessile/abbigliamento , ma solo per le cosiddette Pmi unbranded, cioè quelle che non esprimono un marchio noto .
Da quì era dunque ripartita la proposta di mediazione della Commissione Ue per tentare di “sbloccare” il pacchetto “tutela dei consumatori” (ovvero la proposta di regolamento Tajani-Borg di cui il “Made in” è solo l’articolo 7). Proposta poi rimodulata al ribasso, perchè essendo impraticabile obbligare al “Made in” le Pmi sconosciute e non le grandi griffe della moda, la Commissione si era limitata a rilanciare solo per calzature e ceramica.
A ciò si è aggiunta la proposta della Lettonia, Paese che ha la Presidenza di turno della Ue e che ha il compito, in questi casi, di gestire la mediazione. E che, forse per venire più incontro agli interessi dei contrari tout court al “Made in” – Germania in testa, assieme, tra gli altri, a Belgio, Danimarca, Gran Bretagna, Irlanda, Olanda e Svezia – ha ulteriormente limitato il “Ma- de in” a i soli settori delle calzature e le ceramiche (in quest’ultimo caso solo a quelle destinate ad entrare in contatto con il cibo).
Per l’Italia – il maggiore sostenitore dell’obbligo di indicazione d’origine, insieme a Croazia, Francia, Grecia, Portogallo e Spagna – una presa in giro. E non è bastata una lettera di Renzi al presidente della Commissione, Jean Claude Juncker (di per sè non contrario allaposizioneitaliana) eunachiamata telefonica diretta ad Angela Merkel per smussare le rigidità.
Anche se le sorprese non sono mancate, negli ultimi giorni, con la Polonia passata , pare, in ambito tecnico, dal fronte dei contrari a quello dei favorevoli.
E mentre le imprese italiane ribadiscono no a compromessi mortificanti, facendo fronte comune con il governo italiano (neppure i contatti tra il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi e il suo omologo tedesco hanno sortito effetti) , c’è anche un’altra opzione che potrebbe profilarsi, quella del rinvio.
In quel caso, la prossima riunione del Consiglio competitività sarebbe a ottobre, sotto presidenza lussemburghese. Più tempo per negoziare ma anche, agli schieramenti, per logorarsi.
BRACCIO DI FERRO Tutta la partita si gioca sul perimetro di applicazione dell’indicazione d’origine; in caso di forti contrasti, non si esclude un rinvio a ottobre