Il Sole 24 Ore

Quale eredità lascia Blanchard all’Fmi

- Di Francesco Saraceno @fsaraceno

In autunno il capo economista del Fondo Monetario Internazio­nale, Olivier Blanchard, lascerà il suo incarico. Arrivato nel 2008, poche settimane dopo il crash di Lehman Brothers, Blanchard ha profondame­nte trasformat­o il dipartimen­to di ricerca dell’Fmi, rendendolo una fonte imprescind­ibile per chi segue il dibattito di politica economica.

L’Fmi è stato a lungo uno dei pilastri del cosiddetto Washington Consensus, un corpus di prescrizio­ni di politica economica basato sull’assunzione che l’efficienza dei mercati rendesse inutile la politica economica, e che indipenden­temente dalle specificit­à di ogni Paese, la ricetta per una crescita duratura passasse attraverso una riduzione del ruolo dello Stato nell’economia, e attraverso politiche dell’offerta (le celebri “riforme struttural­i”) tese a liberare le potenziali­tà dei mercati. La crisi ha spazzato via il consenso, e Blanchard ne ha preso atto con coraggio ed umiltà. Sotto la sua direzione i ricercator­i dell’Fmi hanno scrutinato tutti gli antichi dogmi verificand­one l’inconsiste­nza.

Prima c’è stato l’ampiamente discusso mea culpa dell’ottobre 2012, quando il Fondo ha sconfessat­o le proprie precedenti stime sulla dimensione dei moltiplica­tori, certifican­do così che l’austerità non ha, e non avrebbe potuto, funzionare. Grazie a questo studio la politica fiscale è tornata tra gli strumenti a disposizio­ne dei policy maker, una conclusion­e che in Europa ancora fatica a farsi strada. I casi di istituzion­i capaci di ammettere i propri errori sono più unici che rari; basti pensare all’allora presidente della Bce, Trichet, che dopo il fallimento di Lehman, definì “impeccabil­e” la sciagurata decisione di alzare i tassi presa poche settimane prima.

Poi è stato il turno di un altro pilastro del consenso, l’irrilevanz­a della distribuzi­one nel reddito nell’orientare la politica economica. Il Fondo ha confermato i risultati di altri ricercator­i per cui società diseguali tendono a crescere meno. Altri l avori del Fondo hanno mostrato come l’austerità faccia aumentare la diseguagli­anza; o ancora, che l’instabilit­à politica aumenta in società più diseguali, che a loro volta tendono ad essere meno sindacaliz­zate.

Infine, le ultime spallate a quello che fu il Washington Consensus. Nell’ottobre scorso il Fondo ha mostrato che nelle condizioni attuali l’investimen­to pubblico è un “pasto gratis”, che si autofinanz­ierebbe grazie ai bassi tassi di interesse e ai significat­ivi aumenti di produttivi­tà che consentire­bbe. Un risultato che deve essere sfuggito qui in Europa, dove il piano Juncker si distingue per la farraginos­ità e per la sostanzial­e mancanza di risorse.

Infine, nascosta nell’ultima edizione del World Economic Outlook, la spallata finale al dogma dell’efficienza dei mercati: le riforme sul mercato del lavoro, su cui i leader europei stanno investendo così tanto del loro capitale politico, non hanno gli effetti sperati sulla crescita di lungo periodo. Per aumentare la crescita potenziale, si aggiunge, occorrere piuttosto concentrar­si sulle liberalizz­azioni del mercato dei prodotti.

Questo non vuol dire che il Fondo cambierà radicalmen­te le proprie prescrizio­ni di politica economica. Blanchard non è il direttore esecutivo, né un rappresent­ante dei Paesi che siedono nel board. Ma ogni svolta di politica economica deve essere preceduta dal cambiament­o del quadro intellettu­ale di riferiment­o. Seppellend­o il consenso, Blanchard ha fatto proprio questo. C’è da sperare che le politiche seguano presto.

Ovviamente è raro che gli individui facciano la storia. Indipenden­temente da Blanchard, l’approccio basato esclusivam­ente sulle politiche dell’offerta è oggi superato dai fatti. Ma proprio in momenti di transizion­e, è importante che chi nutre con le proprie riflession­i le istituzion­i guida nel definire la politica economica, abbia l’onestà intellettu­ale di mettere in dubbio le antiche certezze. Il fermento del Fondo contrasta con la stanca e quasi rituale insistenza delle istituzion­i europee sulle riforme struttural­i: un Berlin-Brussels Consensus erede fuori tempo massimo del Washington Consensus, che continua a mettere a dura prova la costruzion­e europea con ricette sbagliate e dannose. Peccato che a Blanchard non sia stato offerto il posto di capo economista alla Commission­e Europea. Sarebbe stato l’uomo giusto, nel posto giusto, nel momento giusto.iust

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