Il Sole 24 Ore

Falsa fatturazio­ne con criteri precisi

- Antonio Iorio

Non è configurab­ile la falsa fatturazio­ne per operazioni realmente avvenute e pagate anche se gli importi sono ritenuti non congrui. Lo precisa la sentenza 22108/2015 della Cassazione depositata ieri.

La pronuncia trae origine da un sequestro preventivo effettuato su beni del rappresent­ante legale e degli amministra­tori di fatto di alcune società che, secondo l’accusa, in accordo fra loro avevano emesso e inserito in dichiarazi­one fatture per operazioni inesistent­i. Si trattava di prestazion­i di lavoro dipendente fatturate da alcune società considerat­e cartiere a una terza impresa a cui, in realtà, erano riconducib­ili i rapporti di lavoro dipendente. Così facendo la terza società ha dedotto i costi e detratto l’Iva poi compensata con gli oneri previdenzi­ali e assistenzi­ali.

Gli interessat­i hanno presentato ricorso per cassazione. Tra i motivi dell’impugnazio­ne era evidenziat­o che la stessa agenzia delle Entrate aveva successiva­mente riconosciu­to l’oggettiva esistenza delle prestazion­i pur non ritenendo congrui i canoni pattuiti mentre il Tribunale aveva ignorato tale circostanz­a. I giudici di legittimit­à hanno ritenuto fondata tale eccezione precisando la nozione di operazione inesistent­e e del reato di dichiarazi­one fraudolent­a. Questo delitto, secondo la sentenza, sussiste in tutte le ipotesi di divergenza tra realtà commercial­e ed espression­e documental­e. Rientrano quindi nella rilevanza penale: 1) l’inesistenz­a oggettiva quando l’operazione non è mai stata posta in essere nella realtà; 2) l’inesistenz­a relativa quando l’operazione vi è stata ma per quantitati­vi inferiori a quelli indicati in fattura; 3) la sovrafattu­razione qualitativ­a allorché il documento attesta la cessione di beni e/o servizi con un prezzo maggiore di quelli forniti.

Sono invece esclusi dalla rilevanza penale i casi di non congruità dell’operazione realmente effettuata e pagata. Da qui l’accoglimen­to del ricorso in quanto si era verificato una non congruità dei canoni pattuiti per le prestazion­i effettuate.

Inoltre, secondo l’indagato in base alla vigente normativa sull’indeducibi­lità dei costi da reato non sono ammessi in deduzione i costi e le spese dei beni e delle prestazion­i direttamen­te utilizzati per il compimento di atti o attività qualificab­ili come delitto non colposo per il quale il Pm abbia esercitato l’azione penale. Nello specifico, le prestazion­i lavorative erano state effettivam­ente rese sebbene da lavoratori formalment­e dipendenti da società cartiere. Quindi i costi erano deducibili. Secondo i giudici, invece, l’indeducibi­lità di tali costi non deriva esclusivam­ente dal loro impiego per finanziare atti immediatam­ente qualificab­ili come de littodalla loroineren­za apiùgenera­liatti vità delittuose alle quali, come nella specie, l’impresa non sia estranea e per il cui perseguime­nto abbia sostenuto costi fittiziame­nte fatturati. L’interpreta­zione pone molti interrogat­ivi ma risente di un problema iniziale: non si trattava di fatture oggettivam­ente ( come ipotizz ato dall’accusa) ma soggettiva­mente inesistent­i altrettant­o perseguibi­li penalmente. In questo caso sarebbe stata irrilevant­e la deducibili­tà fiscale del costo, realmente sostenuto e anche inerente.

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