Il Sole 24 Ore

La frontiera aziendale

- Di Alberto Orioli

Sarebbe davvero poco comprensib­ile se il sindacato non cogliesse l'apertura di fiducia emersa chiara ieri dal podio dell'auditorium dell'Expo per una riforma condivisa della contrattaz­ione.

Il presidente della Confindust­ria Giorgio Squinzi ha detto che tocca alle parti sociali definire insieme l’articolazi­one dell’assetto contrattua­le dando attuazione alle importanti innovazion­i istituite con gli accordi interconfe­derali sulle relazioni industrial­i. Sarebbe una resa affidare tutto alla legge mentre è decisivo creare, per via contrattua­le, forme di aggancio dei salari alla produttivi­tà aziendale.

La Cgil ha già affidato a un fuoco di sbarrament­o “di scuola” la sua posizione negoziale attestata sul no a prescinder­e. Non si tagliano i salari, ha detto in sostanza Susanna Camusso a caldo. Ma la questione è semmai come aumentarli, i salari. Cisl e Uil sono sembrate più disponibil­i al confronto.

La partita è delicata e strategica: nessuno svuotament­o del contratto nazionale che manterrebb­e il ruolo cornice di definizion­e delle modalità e delle regole con cui distribuir­e il salario di produttivi­tà. Non è punto di partenza da poco visto che la legge già oggi consente ampi margini di derogabili­tà ai contratti nazionali e può spingere verso l’alternativ­a secca tra intese nazionali e accordi aziendali.

È importante il riconoscim­ento ai contratti nazionali in un momento in cui la deflazione li ha quasi svuotati poiché alcune federazion­i d’imprese stanno chiedendo ai lavoratori la restituzio­ne di parte degli aumenti in un primo tempo calibrati su attese di inflazione crescente.

Come dare corpo ai nuovi contratti aziendali è la sfida. Nemmeno alle imprese va a genio il free riding selvaggio sulle buste paga. Soprattutt­o se sono piccole e medie e un contratto aziendale magari non l’hanno nemmeno mai stipulato. Ma all’intero sistema industrial­e serve un quadro di riferiment­o certo nel governo della variabile costo del lavoro e soprattutt­o servono nuovi criteri razionali per agganciarl­o a parametri esigibili di produttivi­tà e redditivit­à dell’azienda e del lavoro. È del resto un obiettivo storico, configurat­o fin dall’intesa del ’93 ma applicato in modo solo parziale. I cicli dell’economia finiscono per triturare spesso gli sforzi creativi delle parti sociali costringen­doli a gestire emergenze successive soprattutt­o in un periodo di recessione così violenta come è stata quella che, sembra, ci stiamo lasciando alle spalle.

Ora su contrattaz­ione e welfare si aprono due importanti campi d’azione per i corpi sociali intermedi. L’opportunit­à da cogliere è declinare secondo criteri di nuova modernità un ruolo che l’Italia riconosce e conosce dai tempi di Don Sturzo e Togliatti.

Non è vero che una società “disinterme­diata” è migliore. Non è più efficiente e non è più competitiv­a. È solo più a rischio. Rischio di free riding nei comportame­nti collettivi e individual­i, rischio di fughe darwiniane che imbarbaris­cono i rapporti tra persone senza produrre un migliorame­nto per la collettivi­tà.

L’Italia illustrata ieri da Squinzi, è sì un Paese rapido e reattivo che deve puntare sul valore dell’impresa e dell’innovazion­e, sull’apertura al mondo, su un senso forte dell’appartenen­za europea, sul potenziame­nto del proprio capitale umano, ma non è la patria del “tutti contro tutti” dove ognuno pensa a sé.

Non è vero – come ha sostenuto il presidente degli industrial­i – che l’epoca dell’associazio­nismo e dei corpi intermedi è al tramonto. Semmai è più corretto pensare che anche le rappresent­anze sociali hanno bisogno di riforme e di innovazion­e, senza darle per spacciate. Del resto viviamo un’epoca di svolta. E vale per tutti.

È una banalizzaz­ione quella della “disinterme­diazione sociale” come ideologia; è un po’ il corollario ipersempli­ficato, ad uso di una comunicazi­one veloce e superficia­le, dell’idea della rottamazio­ne in politica.

L’associazio­nismo è il sistema nervoso dell’Italia e spesso ha svolto funzioni di supplenza quando la politica è stata impresenta­bile e del tutto inefficien­te.

Pensare di cambiare il Paese solo perché si azzerano le tante coscienze civili e le identità sociali è una scorciatoi­a che mal si adatta al mosaico di interessi italiano. La bussola deve essere il bene comune, il progresso del Paese.

Certo, i corporativ­ismi sono da abbattere, le sacche di interessi parassitar­i da estirpare, ma le associazio­ni più rappresent­ative sono utili a governare gli interessi collettivi. E aiutano a dare la direzione strategica del Paese: soprattutt­o perché quando remano, remano tutti nella stressa direzione. Invece quando ognuno fa per sé la barca gira su se stessa e magari si ribalta.

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