Il diritto a esistere delle imprese
Tra il chiedere la luna e rivendicare il diritto a esistere c’è un divario abissale. Quello che passa tra la cultura anti industriale che si alimenta di luoghi comuni sul facile profitto e le esigenze di imprenditori veri ai quali bastano poche regole, eque e chiare.
In rete c’è un video - si chiama «extraordinary commonplace» - realizzato dal governo per una campagna di promozione del made in Italy. Mette in sequenza le eccellenze della nostra industria capovolgendo con ironia i luoghi comuni affibbiati all’italiano medio.
Quinti nel mondo per surplus commerciali in beni manifatturieri, primi produttori europei di mobili, quarti nel mondo per l’oreficeria, con il 75% di export, primi per incremento di esportazioni di farmaci, secondi nella Ue per export di macchinari (per un valore di 100 miliardi di euro), leader nei superyacht con il 40% degli ordini mondiali. Potremmo andare avanti ancora a lungo, ma si rischierebbe solo di ribadire primati che tutte le principali graduatorie internazionali hanno già scolpito da tempo.
Più utile, forse, ricordare che dietro questi numeri ci sono aziende di famiglia o aperte a capitali esterni, filiere produttive, reti di imprese, catene di subfornitura, indotti che alimentano la maggior parte degli occupati in più di una provincia italiana. Ad alimentare questi numeri ci sono modelli industriali, brevetti registrati con costi elevati da sostenere, innovazioni di processo nella catena produttiva, illuminanti campagne di marketing, integrazioni con le reti logistiche e commerciali.
C’è, in altre parole, una cultura industriale troppo spesso data per scontata, o peggio dimenticata nella narrazione della crisi e della rincorsa alla ripresa. È un universo produttivo che, al di là di rivendicazioni settoriali e delle periodiche disquisizioni su coperture più o meno difficili da trovare, invoca soprattutto equilibrio e certezze.
Lasciateci fare, è in sintesi il messaggio consegnato da tempo ai governi che si sono succeduti. Né favori né asimmetrie di mercato, né incentivi a pioggia, né contributi che affossino il bilancio dello Stato: la richiesta silenziosa di migliaia di imprese punta piuttosto a un contesto di regole eque e non oppressive, che non penalizzino rispetto a concorrenti stranieri e non rendano stutturalmente impossibile la compatibilità tra costi e ricavi che dovrebbe essere alla base di ogni attività economica. Concetti semplici, ma indispensabili perché anche in futuro l’«extraordinary commonplace» non sia solo un video online