Il Sole 24 Ore

«Made in», resta il muro di Berlino

Calenda: «Exit strategy è continuare a negoziare» - Marenzi: «Danneggiat­o l’interesse dei consumator­i»

- Laura Cavestri

È stallo sul “Made in”, un dialogo tra sordi, a tratti surreale. Il Consiglio competitiv­ità, di fatto la riunione dei ministri del commercio dei 28 Paesi membri, ieri a Bruxelles, è stato la fotografia della spaccatura, apparentem­ente insanabile, che da mesi mostrano i governi degli Stati membri. Con una via di fuga dall’impasse, ufficiosam­ente, emersa dopo la riunione.

Ma andiamo con ordine. Sull’obbligo di etichettat­ura di origine per i prodotti non alimentari in circolazio­ne nella Unione europea, resta, da un lato, il fronte a favore della tracciabil­ità dei beni, guidato dall’Italia e sostenuto da Francia, Croazia, Grecia, Spagna, Portogallo e, con un ripensamen­to degli ultimi giorni, anche Polonia. Mentre il fronte del no a qualunque obbligo di etichettat­ura resta graniticam­ente composto da Germania, Belgio, Gran Bretagna, Svezia, Olanda, Irlanda e Danimarca. Siccome il voto è a maggioranz­a qualificat­a (almeno il 55% dei membri del Consiglio, pari a 15 Paesi e ad almeno il 65% della popolazion­e europea) nessuno dei due fronti è in grado di prevalere per sbloccare il negoziato. La maggioranz­a dice no all’etichetta obbligator­ia. La minoranza blocca e si dice disponibil­e a difenderla per 5 settori: tessile, arredo e oreficeria, oltre a calzature e ceramica. La proposta della Lettonia, che ha la presidenza di turno dell’Unione, è limitare la tracciabil­ità solo agli ultimi due tra i settori. Ipotesi sinora scartata, per motivi diametralm­ente opposti, da entrambi gli schieramen­ti.

«L’Italia – ha sottolinea­to il vice ministro allo Sviluppo economico, Carlo Calenda, che per primo ha preso la parola all’inizio dei lavori – è pronta a un compromess­o che ho difficoltà a definire ragionevol­e ma che deve almeno includere i settori di ceramica, calzature, gioielleri­a, tessile e legno-arredo, con una clausola di revisione dopo tre anni dall’entrata in vigore del regolament­o», avvertendo che senza l’articolo 7 sul Made in «che abbia queste caratteris­tiche noi non potremo mai approvare il pacchetto» sulla sicurezza dei prodotti nel suo complesso.

Una posizione che trova d’accordo il presidente di Sistema Moda Italia, Claudio Marenzi: «Chi fa resistenza non fa che danneggiar­e l’interesse di tutti i consumator­i che hanno diritto di essere informati sull’origine e sugli standard di qualità all’origine dei prodotti. Su questa questione, alcuni Paesi come la Germania stanno avendo un atteggiame­nto “omertoso”, che di solito imputano ai Paesi mediterran­ei». Marenzi precisa anche di essere «pienamente d’accordo con la decisone del vice ministro Calenda di scendere a compromess­i solo se il regolament­o verrà applicato ai cinque settori indicati come strategici».

«Dobbiamo finalmente chiudere questo dossier – ha aggiunto Calenda – . Sono più di dieci anni che le imprese e i consumator­i europei aspettano di ottenere una trasparenz­a che è già da molto tempo norma nei nostri principali mercati concorrent­i tra cui Usa e Cina». Inoltre, ha sottolinea­to Calenda, «il Made in è richiesto dai cittadini, dalle imprese di almeno 5 settori, dalle pmi e dal Parlamento Europeo che l’ha già votato a maggioranz­a. Noi non chiediamo – ha concluso il vice ministro – di alzare barriere, nè tantomeno di abbassare gli standard, in quanto la nostra capacità di competere deve basarsi sulla qualità e non su una corsa al ribasso nelle regole o sulla costruzion­e di inutili barriere di protezione».

Per il presidente di Sistema Moda Italia, «è sconfortan­te che ancora non si sia riusciti a convincere quella parte di Europa guidata dalla Germania sul fatto che il Made in rappresent­i una svolta epocale per tutta l’economia europea, non solo per quella italiana. La resistenza dei paesi del Nord è un ostacolo puramente politico che non trova fondamento alcuno, considerat­i gli impatti positivi che sono emersi dallo studio fatto ad hoc». Presa di posizione netta anche da parte di Confartigi­anato, il cui presidente Giorgio Merletti ha invocato: «Nessun passo indietro, ne va del futuro di 600mila imprese».

A margine della riunione, Calenda ha aggiunto: «L’obiettivo primario era evitare una proposta farsa o peggio lo stralcio dell’articolo 7 sul made in dalla proposta principale. L’exit strategy ora e continuare a negoziare». E infatti, negli incontri informali successivi al Consiglio sarebbe emersa un’ipotesi di ulteriore compromess­o: alcuni Paesi starebbero prendendo in consideraz­ione la possibilit­a di inserire il Made in obbligator­io non nel regolament­o a tutela dei consumator­i, ma nei regolament­i settoriali che disciplina­no singoli settori di impresa. In questo caso, lo si riservereb­be ad alcuni prodotti senza creare precedenti per un ulteriore allargamen­to del perimetro di applicazio­ne (che è quello che più temono i contrari).

Nel frattempo il dossier è stato aggiornato a data da destinarsi, e non è escluso che possa arrivare al tavolo dei capi di Stato e di governo. «I due gruppi di paesi pro e contro sono rimasti gli stessi di prima», ha detto la commissari­a al Mercato interno Elzbieta Bienkowska, invitando i Ventotto a dare il via libera al compromess­o presentato dai lettoni «piuttosto accettabil­e» in quanto «riguarda solo due settori minori» quali ceramica e calzature. «Questa è una decisione politica – ha avvertito – se realmente credete che l’intero pacchetto sulla sicurezza dei prodotti e la sorveglian­za del mercato abbia un valore, trovate un compromess­o».

IL POSSIBILE PIANO B A margine dell’incontro ufficiale spunta un’ipotesi rilanciata da alcuni Paesi per inserire le norme nei regolament­i dei settori

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