Il Sole 24 Ore

«Schiaffo al Parlamento europeo»

- L. Ca.

«Aspettiamo. Continuiam­o ad aspettare, ancora. Del resto, è dal 2003 che le aziende italiane aspettano». C’è in realtà più amarezza che rassegnazi­one nelle parole di Lisa Ferrarini, vicepresid­ente di Confindust­ria per l’Europa, al termine del Consiglio competitiv­ita che ieri ha cristalliz­zato lo stallo tra favorevoli e contrari alla disciplina della tracciabil­ità dei prodotti non alimentari in circolazio­ne nella Ue. Più che una battaglia tra nord e sud, quella sul Made in è però il sintomo di due modi diversi di fare impresa in Europa. «Ci sono Paesi come l’Italia – spiega Ferrarini – che hanno conservato una struttura produttiva e una filiera in gran parte nazionali o europee e ci sono altri paesi che sono diventati prevalente­mente trasformat­ori e assemblato­ri, più che produttori e hanno più interesse a tutelare le importazio­ni che non l’industria. Tra questi c’è anche la Germania, la prima manifattur­a europea. E il suo no ideologico è per altro in contraddiz­ione con l’esigenza di rilanciare crescita e occupazion­e, dato che la valorizzaz­ione dell’etichettat­ura di origine è un riconoscim­ento all’Europa che produce, tutela dai falsi e contribuis­ce alla crescita della manifattur­a di qualità».

C’è poi anche un problema di credibilit­à e autorevole­zza delle istituzion­i europee. «È una situazione surreale – ha aggiunto Ferrarini – l’Europa non riesce a prendere una decisione di buon senso e a dare un messaggio lim- pido e coerente al proprio tessuto industrial­e, proprio nel momento in cui ha l’ambizione di negoziare accordi di libero scambio internazio­nali come il Ttip con gli Usa, contropart­e che spesso riteniamo meno sensibile alla sicurezza dei prodotti ma che quando importa richiede che i beni che arrivano in dogana abbiano un’etichettat­ura obbligator­ia. Così come fanno anche Cina e Giappone».

Inoltre, questo stallo, sottolinea la vicepresid­ente di Confindust­ria, «è uno schiaffo al Parlamento Ue, che è eletto da tutti i cittadini e che oltre un anno fa (era aprile 2014, ndr) ha votato ad amplissima maggioranz­a a favore di un Made in generalizz­ato. Noi come imprese italiane abbiamo accettato l’idea di un’applicazio­ne per categorie, ma che ricomprend­a almeno quei settori che hanno espresso un parere favorevole all’etichettat­ura nello studio di impatto costi/benefici effettuato dalla Commission­e, e voluto non da noi, ma dal fronte dei Paesi contrari. Siamo anche disposti a non chiedere, in futuro, l’estensione del Made in a settori verso i quali la Germania è più sensibile come l’elettronic­a o la componenti­stica automotive. Qui non si tratta di imporre la tracciabil­ità a chi la ritiene un adempiment­o inutile o un danno».

Si tratta, secondo Lisa Ferrarini, «di legiferare per tutti i settori che hanno detto sì, ovvero calzature, ceramica, tessile, mobili e oreficeria. Senza se e senza ma. Non vedo perché non lo si possa accettare e si ricorra a strane geometrie come “le calzature sì e la moda no” o “la ceramica sì ma solo quella che viene a contatto con gli alimenti”».

Ora, il timore è però quello di una guerra di logorament­o, che puo andare avanti anche anni. «È importante che la questione non vada troppo avanti. O il rischio è che non il Made in non si approvi mai. Apprezzo lo sforzo che sta facendo il governo per tutelare la posizione delle imprese italiane. In ogni caso, finché l’imprendito­re italiano si arrabbia e si indigna, vuol dire che è vivo e che vuole combattere. Se dovesse tacere, significa che avrà delocalizz­ato oppure avrà chiuso».

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Confindust­ria. Lisa Ferrarini

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