Il Sole 24 Ore

Nessuna persecuzio­ne nel nome di Dio

- Di Bruno Forte

Lo scorso 3 aprile, al termine della via Crucis al Colosseo, seguita da una folla immensa, Papa Francesco ha rivolto una toccante preghiera a Dio, ricordando le ferite di Cristo sofferente riconoscib­ili in quelle dell'umanità perseguita­ta. In particolar­e, Francesco ha fatto riferiment­o ai cristiani «perseguita­ti e crocifissi sotto i nostri occhi e spesso con i l nostro si l enzio complice».

In sintonia con queste parole del Papa, i vescovi italiani hanno indetto per sabato 23 maggio, veglia di Pentecoste, una giornata di preghiera nazionale dedicata a coloro che in tutto il mondo soffrono per la mancanza di libertà religiosa, uno dei più elementari diritti umani: «In tutte le chiese si preghi per rompere il muro dell'indifferen­za e del cinismo, lontano da ogni strumental­izzazione ideologica o confession­ale». Lo stesso Francesco, riferendos­i in altre occasioni ai genocidi del secolo scorso, a cominciare dal massacro armeno del 1915, ha ricordato le persecuzio­ni e gli stermini di oggi, richiamand­o su di essi l’attenzione di un mondo che appare fin troppo distratto. Le ferite aperte vanno dall’Iraq alla Siria, dal Pakistan all’Arabia Saudita, dall’Egitto alla Libia, al Mali, alla Nigeria, al Centrafric­a, alla Somalia, alla Cina, fino alla lunga “via crucis” del Medio Oriente. Lo stesso anno in corso è iniziato con la strage di 23 cristiani copti, proprio il giorno di Capodanno, nella chiesa dei Due Santi ad Alessandri­a d’Egitto, paese in cui questi credenti in Cristo stanno rapidament­e diminuendo a causa di un inarrestab­ile esodo, analogo a quello che avviene per i cristiani in Libano. A poca distanza di tempo, lo sgozzament­o dei ventuno copti da parte di estremisti islamici in Libia ha gettato un ulteriore, violento fascio di luce su questo dramma in corso. In altri luoghi, come la Siria, l’esodo dei cristiani e non solo di essi è stato accelerato dai gravissimi conflitti in corso. La strage di studenti cristiani all’università di Garissa in Kenya, poi, avvenuta giovedì 2 aprile ad opera dei militanti del movimento somalo Al-Shabaab, ha rappresent­ato un ennesimo segnale della violenza an- ticristian­a crescente. In maniera accorata Papa Francesco ha invitato la comunità internazio­nale a non «voltare lo sguardo dall’altra parte». Sicurament­e, il tema delle persecuzio­ni religiose è spinoso e non esente dal rischio di accomunare situazioni molto diverse tra loro, alimentand­o in alcuni la retorica dello scontro tra le religioni. In riferiment­o ai conflitti in corso in diversi paesi del Medio Oriente, va anche tenuto presente che la maggioranz­a delle vittime in quelle zone è musulmana e che il primo obiettivo di molti movimenti estremisti è quasi sempre l'establishm­ent dei paesi islamici stessi, accusato di aver abbandonat­o la “vera fede”. Va pure ricordato che la stragrande maggioranz­a dei credenti dell’Islam è formata da gente pacifica, fortemente desiderosa di pace. La violenza del fondamenta­lismo nasconde in realtà molto spesso una serie di regolament­i di conti tra bande, gruppi e fazioni rivali, sì che l'ispirazion­e religiosa viene strumental­izzata come copertura per la più efferata criminalit­à.

Di fronte a questi scenari, la condanna di ogni violenza esercitata in nome di Dio va ribadita senza esitazione alcuna: chi colpisce o uccide un essere umano per motivi pre- testuosame­nte definiti “religiosi”, sta in realtà offendendo nella maniera più grave lo stesso Dio che dice di onorare, perché secondo ogni visione autenticam­ente religiosa la creatura porta impressa in sé l'immagine del Creatore. La violenza in nome di Dio è pura e semplice bestemmia, che grida al cospetto dell’Eterno: nessuna giustifica­zione può motivarla, e chi volesse coprirla di una motivazion­e riconducib­ile in qualunque modo all’adorazione del Signore o alla ricerca della Sua gloria, starebbe sempliceme­nte negando la figura dell’unico Padre celeste, che abbraccia ciascuna delle Sue creature con la Sua provvidenz­a e premura. Alla ferma condanna dell’esercizio della violenza per motivi religiosi va aggiunta la necessità di prendere coscienza da parte di tutti i credenti dell'urgenza morale e spirituale di chiedere perdono delle colpe commesse in nome di Dio. In questo senso rimane emblematic­o l’invito che in occasione del grande giubileo del 2000 Giovanni Paolo II rivolse alla Chiesa a riconoscer­e le colpe del proprio passato, come pure l’esempio da lui stesso dato in vista di una «purificazi­one della memoria». Si trattò di una novità coraggiosa, se si pensa che nell’intera storia della Chiesa solo due precedenti potevano essere indicati. Il primo del papa olandese Adriano VI, che, in un messaggio alla Dieta di Norimberga del 25 novembre 1522, aveva riconosciu­to apertament­e «gli abomini, gli abusi [...] e le prevaricaz­ioni» di cui si era resa colpevole la corte romana del suo tempo, «malattia [...] profondame­nte radicata e sviluppata», estesa «dal capo ai membri»”. L’altro è quello di Paolo VI che, nel discorso di apertura della seconda sessione del Concilio Vaticano II, aveva domandato «perdono a Dio [...] e ai fratelli separati» che si sen- tissero offesi dalla Chiesa cattolica, dichiarand­osi pronto, da parte sua, a perdonare le offese ricevute. Certamente, per individuar­e le colpe passate di cui chiedere perdono è necessario coniugare correttame­nte il giudizio storico e quello teologico. Da solo, il giudizio storico potrebbe giustifica­re qualunque azione in nome delle circostanz­e e delle mentalità del tempo, perché, come osservava Benedetto Croce, «la storia non è giustizier­a, ma giustifica­trice»! Occorre perciò unire all’indagine critica la valutazion­e morale, di maniera che là dove si giunga alla convinzion­e che nel passato è stato compiuto un atto contrario alla verità e alla carità si riconosca la necessità di chiederne perdono a Dio e per quanto possibile di farne ammenda. Il rifiuto di ogni storicismo equivale anche alla rinuncia ad ogni forma di apologetic­a pregiudizi­ale: soltanto la verità rende liberi (cf. Gv 8,32)! La purificazi­one della memoria si compie insomma nel presente e incide in esso anzitutto nello stimolare a non ripetere gli errori passati, a vigilare perché le ferite inferte siano sanate e a promuovere una maggiore corrispond­enza della vita dei credenti alle esigenze morali e spirituali. Perciò, nel ribadire che «i cristiani sono invitati a farsi carico, davanti a Dio e agli uomini offesi dai loro comportame­nti, delle mancanze da loro commesse», Giovanni Paolo II significat­ivamente aggiungeva: «Lo facciano senza nulla chiedere in cambio, forti solo dell’amore di Dio che è stato riversato nei nostri cuori». Solo chi rifiuta ogni violenza e si fa carico onestament­e degli errori propri e della propria comunità può anche credibilme­nte condannare ogni genere di persecuzio­ne e di offesa alla dignità della persona umana, specialmen­te se commesse in nome di Dio.

CIVILTÀ IN CONFLITTO Il tema delle persecuzio­ni rischia di accumunare situazioni molto diverse tra loro, alimentand­o la retorica dello scontro tra religioni LIBERTÀ E RESPONSABI­LITÀ Solo chi si fa carico degli errori propri e della propria comunità può credibilme­nte condannare ogni offesa alla dignità della persona umana

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