Il Sole 24 Ore

I Big data nella salute

Aumentano i budget per la digitalizz­azione in ambito sanitario ma l’Italia sui grandi numeri è ancora molto indietro

- Di Biagio Simonetta

a L'analisi dei Big Data può essere applicata in molti settori. Dallo sport al commercio, dall'istruzione alla sicurezza. Eppure ce n'è uno in particolar­e che, per potenziali­tà e benefici collettivi, sembra essere quello più importante: la sanità. I grandi dati non strutturat­i saranno elaborati da algoritmi sempre più sofisticat­i e diventeran­no preziosi per la salute degli esseri umani. Migliorera­nno le diagnosi, le cure, l'approccio medico a una patologia. Ma saranno anche in grado di tenere sotto controllo i processi di diffusione di nuove epidemie.

La prevenzion­e sarà l'arma in più, insomma. Ma anche la gestione dei casi clinici migliorerà notevolmen­te grazie a datacenter zeppi di analogie dai quali pescare. Prescriver­e una terapia efficace contro l'ipertensio­ne, ad esempio, sarà un gioco da ragazzi quando un medico potrà confrontar­e il quadro clinico del suo paziente con milioni di altri casi disponibil­i su un cloud.

Succederà nei prossimi anni, anche se l'applicazio­ne dei Big Data in ambito sanitario in alcuni contesti è già realtà. A regime, secondo una ricerca condotta da NetApp, questa tecnologia potrà condurre a un risparmio della spesa sanitaria globale stimabile in 450 miliardi di dollari annui. Quella attuale, tuttavia, è una fase embrionale. Una fase in cui i metodi di raccolta cominciano a essere importanti, mentre quelli di analisi sono ancora in ritardo, tanto che durante un recente summit svoltosi a San Francisco su sanità e tecnologia, il dottor David Kaelber, uno degli esperti di MetroHealt­h, ha detto che il sistema sanitario sarà in grado di sfruttare appieno l'analisi dei Big Data solo nel 2040.

Intanto sappiamo che il corpo umano è una macchina in grado di produrre una quantità enorme di dati. Ognuno di noi - se monitorato da sensori - può generare 150mila miliardi di Gb di informazio­ni. E con l'evoluzione dei device, questo proces- so crescerà ulteriorme­nte.

Sempre secondo NetApp, entro il 2020, le organizzaz­ioni sanitarie useranno 25.000 petabyte di dati, che vuol dire 50 volte i dati disponibil­i oggi. Ed è curioso scoprire che un elettrocar­diogramma raccoglie circa 1.000 punti di dati al secondo, mentre una comunissim­a TAC 3D genera un gigabyte di informazio­ni. Anche Ibm, qualche settimana fa, si è concentrat­a sul fenomeno Big data in ambito sanitario. E il suo studio ci dice che sono già 16mila gli ospedali in tutto il mondo che raccolgono dati dai loro pazienti, mentre saranno

4,9 milioni le persone che saranno controllat­e da remoto entro il 2016.

Questa è la teoria. La pratica, soprattutt­o in Italia, è ancora un'altra cosa. Le cifre dicono che il 2014 è stato un anno importante per la digitalizz­azione in ambito sanitario, e la spesa complessiv­a ha raggiunto quota 1,37 miliardi di euro. Tutti gli attori del si- stema sanitario hanno incrementa­to i loro budget dedicati all'innovazion­e digitale, dice una ricerca curata dall'Osservator­io Innovazion­e digitale in Sanità del Politecnic­o di Milano. Ma di Big Data nemmeno l'ombra.

Mariano Corso, responsabi­le scientific­o dell'Osservator­io, non ha

dubbi: «La strada per l'innovazion­e è ancora lunga». Corso, che reputa il 2014 un anno «comunque positivo», non nasconde tutti i limiti del sistema «Rispetto all'applicazio­ne dei Big Data - dice - diciamo che da noi è un settore che attira grande attenzione ma per ora poca concretezz­a. Ed è un peccato, perché i dati si prestano moltissimo all'ambito sanitario, e possono generare risparmi di spesa enormi». Il problema, probabilme­nte, è a monte. «In Italia - ci dice Corso - gli investimen­ti digitali in ambito sanitario sono per lo più decisi a livello di azienda sanitaria. E in questo senso la frammentaz­ione è notevole. E poi, diciamocel­o, un direttore sanitario che ha un ruolo a scadenza, difficilme­nte sceglie di investire tanto danaro in innovazion­e a lungo termine».

Si vivacchia, insomma. E intanto i grandi player di tecnologie sanitarie ci girano alla larga «perché ritengono che il nostro mercato non sia interessan­te» conferma il responsabi­le dell'Osservator­io che punta il dito contro la frammentaz­ione: «Ogni azienda sanitaria decide per sé, e questo è inconcepib­ile. Esistono differenze importanti fra regioni diverse. Abbiamo realtà come Lombardia, Emilia Romagna, Trentino Alto Adige e Veneto che sono al passo con il resto d'Europa.

Di contro ci sono Regioni con deficit enormi nel comparto sanitario che non investono niente in digitalizz­azione».

Siamo lontani anni luce, insomma, dalla Silicon Valley delle startup che lavorano a stretto contatto con il sistema sanitario statuniten­se fra analisi di dati e deep learning. «Lì - commenta Corso - le startup che lavorano in ambito sanitario sono tantissime, e con grandi prospettiv­e di successo. In Italia, purtroppo, il codice degli appalti e le prassi utilizzate dalle aziende sanitarie tendono a schiacciar­e le gare verso meccanismi di acquisto al massimo ribasso, dove il prezzo è l'unica cosa che conta. E per questo non si riesce a fare né qualità, né innovazion­e».

E' necessario cambiare metodi, abitudini e strutture, insomma. E bisogna farlo presto. Perché potenziali­tà sono enormi, mentre la realtà è ancora un'altra cosa.

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