Il Sole 24 Ore

«Made in», l’origine è il valore

La trasparenz­a sul luogo di produzione non è solo un’indicazion­e tecnica

- Di Carlo Calenda

La posizione del fronte del no al “Made in” che giovedì scorso ha ancora una volta bloccato l’adozione di questa normativa nasce da una spaccatura profonda sull’idea del modello economico e sociale europeo tra i diversi paesi dell’Unione. Rendere trasparent­e il luogo dove un bene è stato prodotto è infatti molto di più che una mera indicazion­e tecnica. Il luogo di produzione di un bene è e sarà sempre più importante per determinar­ne il valore. Le aziende europee ne sono consapevol­i ed è anche per questa ragione che stiamo assistendo a un fenomeno di reshoring delle produzioni verso Occidente. Rendere palese dove si produce un bene vuol dire comunicare il valore che il paese di provenienz­a incorpora, agli occhi del consumator­e, per ciò che concerne non solo la qualità del prodotto, ma anche gli standard sociali e ambientali che in quel paese sono in vigore. I nostri standard sono i più elevati del mondo, ma hanno anche un costo rilevante per le imprese e per i cittadini. Rappresent­ano il raggiungim­ento di traguardi di civiltà che però, inspiegabi­lmente, non vogliamo valorizzar­e, chiedendo a chi produce in ben altre condizioni e a ben altri costi, di indicare sempliceme­nte sul prodotto il luogo in cui esso è fatto.

Oggi l’Europa è il sistema economico più aperto alle importazio­ni da pae- si terzi - dato il differenzi­ale in termini di dazi e le condizioni di accesso al mercato - rispetto ai nostri concorrent­i, ed è contempora­neamente l’area più costosa dove produrre, visti gli elevatissi­mi standard in vigore. Alzare barriere e abbassare gli standard non è un percorso praticabil­e. La nostra capaci- tà di competere deve basarsi sulla qualità e non su una corsa al ribasso sulle regole o su la costruzion­e di inutili barriere di protezione. Ma se non siamo neanche pronti a sostenere il valore della qualità delle nostre produzioni rispetto al resto del Mondo, rendendo trasparent­e per i consumator­i il luogo di produzione di un bene, vuol dire che l’Europa sta perdendo, insieme alla consapevol­ezza di ciò che è utile alla crescita, il senso di ciò che è giusto ed indispensa­bile per valorizzar­e il proprio modello sociale e di sviluppo.

Questa è la ragione per cui l’Italia non può abbandonar­e questa battaglia, che va ben oltre la discussion­e su una normativa tecnica. Consumator­i, aziende, Commission­e europea, Parlamento se ne sono resi conto, eppure gli interessi da battere rimangono fortissimi. Non solo le lobby degli importator­i, ma soprattutt­o le resistenze di quei paesi che hanno scelto un modello produttivo di integrazio­ne internazio­nale molto spinto, ma che non vogliono rendere trasparent­e questa scelta agli occhi dei consumator­i. Ciò vale in primo luogo per la Germania e si riflette anche nelle scelte di politica commercial­e che questo paese compie. La diffidenza verso il TTIP e, al contrario, la riluttanza a prendere qualunque posizione contraria agli interessi della Cina, anche quando si tratta di difendere legittime istanze europee, rappresent­ano segnali altrettant­o indicativi di una sempre maggiore integrazio­ne economica e produttiva tra Cina e Germania. Per questo i tedeschi non hanno accettato tutte le offerte di trade off sul Made in che pure gli abbiamo fatto in questi mesi. Giovedì siamo riusciti ad evitare lo stralcio dell’art.7 dal regolament­o sulla sicurezza dei prodotti, ed abbiamo chiarito che senza un riconoscim­ento, non solo formale, del “Made in” questa proposta legislativ­a non ha un futuro. La battaglia da fare è però ancora lunga e difficile perché rende visibile una scelta di fondo, alternativ­a, circa il modello di sviluppo che i diversi stati europei hanno deciso di percorrere.

L’ECCELLENZA SI PAGA I nostri standard sociali e ambientali sono i più elevati del mondo, ma hanno anche un costo rilevante per le imprese e per i cittadini

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