«Made in», l’origine è il valore
La trasparenza sul luogo di produzione non è solo un’indicazione tecnica
La posizione del fronte del no al “Made in” che giovedì scorso ha ancora una volta bloccato l’adozione di questa normativa nasce da una spaccatura profonda sull’idea del modello economico e sociale europeo tra i diversi paesi dell’Unione. Rendere trasparente il luogo dove un bene è stato prodotto è infatti molto di più che una mera indicazione tecnica. Il luogo di produzione di un bene è e sarà sempre più importante per determinarne il valore. Le aziende europee ne sono consapevoli ed è anche per questa ragione che stiamo assistendo a un fenomeno di reshoring delle produzioni verso Occidente. Rendere palese dove si produce un bene vuol dire comunicare il valore che il paese di provenienza incorpora, agli occhi del consumatore, per ciò che concerne non solo la qualità del prodotto, ma anche gli standard sociali e ambientali che in quel paese sono in vigore. I nostri standard sono i più elevati del mondo, ma hanno anche un costo rilevante per le imprese e per i cittadini. Rappresentano il raggiungimento di traguardi di civiltà che però, inspiegabilmente, non vogliamo valorizzare, chiedendo a chi produce in ben altre condizioni e a ben altri costi, di indicare semplicemente sul prodotto il luogo in cui esso è fatto.
Oggi l’Europa è il sistema economico più aperto alle importazioni da pae- si terzi - dato il differenziale in termini di dazi e le condizioni di accesso al mercato - rispetto ai nostri concorrenti, ed è contemporaneamente l’area più costosa dove produrre, visti gli elevatissimi standard in vigore. Alzare barriere e abbassare gli standard non è un percorso praticabile. La nostra capaci- tà di competere deve basarsi sulla qualità e non su una corsa al ribasso sulle regole o su la costruzione di inutili barriere di protezione. Ma se non siamo neanche pronti a sostenere il valore della qualità delle nostre produzioni rispetto al resto del Mondo, rendendo trasparente per i consumatori il luogo di produzione di un bene, vuol dire che l’Europa sta perdendo, insieme alla consapevolezza di ciò che è utile alla crescita, il senso di ciò che è giusto ed indispensabile per valorizzare il proprio modello sociale e di sviluppo.
Questa è la ragione per cui l’Italia non può abbandonare questa battaglia, che va ben oltre la discussione su una normativa tecnica. Consumatori, aziende, Commissione europea, Parlamento se ne sono resi conto, eppure gli interessi da battere rimangono fortissimi. Non solo le lobby degli importatori, ma soprattutto le resistenze di quei paesi che hanno scelto un modello produttivo di integrazione internazionale molto spinto, ma che non vogliono rendere trasparente questa scelta agli occhi dei consumatori. Ciò vale in primo luogo per la Germania e si riflette anche nelle scelte di politica commerciale che questo paese compie. La diffidenza verso il TTIP e, al contrario, la riluttanza a prendere qualunque posizione contraria agli interessi della Cina, anche quando si tratta di difendere legittime istanze europee, rappresentano segnali altrettanto indicativi di una sempre maggiore integrazione economica e produttiva tra Cina e Germania. Per questo i tedeschi non hanno accettato tutte le offerte di trade off sul Made in che pure gli abbiamo fatto in questi mesi. Giovedì siamo riusciti ad evitare lo stralcio dell’art.7 dal regolamento sulla sicurezza dei prodotti, ed abbiamo chiarito che senza un riconoscimento, non solo formale, del “Made in” questa proposta legislativa non ha un futuro. La battaglia da fare è però ancora lunga e difficile perché rende visibile una scelta di fondo, alternativa, circa il modello di sviluppo che i diversi stati europei hanno deciso di percorrere.
L’ECCELLENZA SI PAGA I nostri standard sociali e ambientali sono i più elevati del mondo, ma hanno anche un costo rilevante per le imprese e per i cittadini