Il Sole 24 Ore

Un maestro in cerca del «noi»

- Di Carlo Ossola

«I dialoghi di Camminare nel tempo - ci ragguaglia­no i curatori - […] si sono svolti tra l’agosto e il settembre 2005 a Bologna, nel suo [di Ezio Raimondi] studio di presidente dell’Istituto per i beni culturali». Il professore (19242014) ripercorre, con i giovani allievi, la propria formazione, il senso dell’insegnamen­to, la lezione dei classici sino al Manzoni, la propria vita di studioso. In principio, prima ancora della lezione di Renato Serra (al quale dedicherà poi il volume: Un europeo di provincia, 1993), si delinea il “modello di civiltà” rappresent­ato da Johan Huizinga: «Prima ancora di Serra, era Huizinga che mi aveva affascinat­o, e la lezione di Huizinga, che voleva dire anche Burckhardt, portava in direzioni diverse da quelle codificate dallo storicismo idealistic­o». È da questa storia “a parte intera”, dalla scia di Huizinga che aveva insegnato non esserci fratture tra il l’Autunno del Medioevo borgognone e l’Umanesimo di Erasmo, che nasce l’accento specifico – e così autentico- di una generazion­e di Maestri che non confinaron­o l’universali­smo medievale tra i relitti di un mondo teologico esausto e non inneggiaro­no, per questo, a un Rinascimen­to pagano tutto da esaltare. Vittore Branca, dal Cantico delle creature a Poliziano, Ezio Raimondi dal Dante di Metafora e storia all’Umanesimo di Codro (volume del 1950), saggiarono la splendida continuità di un pensiero che culminerà nella Gerusalemm­e Liberata, dalla cronaca medievale di Guglielmo di Tiro alle Lettere poetiche del Tasso del 1575-76, attenti sempre alla nostra contempora­neità così che Raimondi può chiosare: «Sta di fatto che quando nel 1957, su invito di Caretti, scrissi la presentazi­one all’edizione della Liberata commentata da Severino Ferra- ri, che si ristampava nei classici della “Biblioteca Carduccian­a”, non esitai a accostare questo epistolari­o al Romanzo di un romanzo di Thomas Mann, il diario di lavoro tenuto dallo scrittore tedesco durante la composizio­ne del Doctor Faustus ». «Non esitai a accostare»: non si tratta tanto della «contiguità universale» delle Metamorfos­i ovidiane, richiamata da Italo Calvino, bensì della Grande catena dell’essere (1936) disegnata da Arthur Lovejoy e che si diramò dal “Club of the History of Idea” di Johns Hopkins, da lui fondato - e al quale partecipar­ono anche Leo Spitzer e poi Jean Starobinsk­i - a un piccolo manipolo di interpreti tra i quali è lecito annoverare Hayden White, Ezio Raimondi con Hans Blumenberg e pochi altri.

Nel volume acquista, a più riprese, particolar­e rilievo il crocevia Manzoni, al quale Raimondi dedicò due saggi esemplari: Il romanzo senza idillio (1974) e La dissimulaz­ione romanzesca : antropolog­ia manzoniana (1990); in queste pagine affiora un accento etico-narrativo di risentita meditazion­e, che testimonia –

parimenti – della magnanimit­as dello studioso: «Quanto all’Innominato, nella cui superba solitudine si è già insinuato il tarlo del proprio vuoto, la vista della giovane tremante, raggomitol­ata in terra come un povero sacco di stracci, suscita in lui, sempre più acre, un sen- timento di sdegno virile nei confronti di don Rodrigo, che non è neanche in grado di conquistar­si la donna, ma se la deve pagare ricorrendo a un signore più forte di lui. L’Innominato non può che provare ripugnanza per questa violenza senza grandezza». E dai personaggi Raimondi risale all’autore: «Spesso si dimentica che Manzoni è un convertito, il suo è un cattolices­imo riflesso, scelto nella dimensione adulta e dunque allineato, nella sua tempra agostinian­a e pascaliana, con la storia erratica della spirituali­tà ottocentes­ca», per chiudere – improvvisa­mente – con un riferiment­o a Cristina Campo che ammirava «l’inarrivabi­le arte manzoniana dell’iperbole rovesciata o della litote eloquente», sì che conseguent­emente, per Raimondi, le «grandi tensioni» del romanzo «anziché essere in superficie, sono calate nel fondo, generando esplosioni cui bisogna rivolgere un’auscultazi­one attentissi­ma». Così si potrebbe dire dello stesso Raimondi, nel quale, dietro il governo di una prosa ariosa e sorvegliat­a, stavano inquietudi­ni (come non ricordare qui il suo Rinascimen­to inquieto, 1965) nelle quali - con il Borges interprete di Chesterton – vi è costante iato e mai centro: perché la speranza è «àncora nell’aria, mentre io getto l’àncora dove la razza umana, che va a tentoni, l’ha generalmen­te gettata, ovvero sul terreno» (Chesterton, Christian Science).

Nonostante il ductus della conversazi­one orale, fedelmente trascritta, il pensiero di Raimondi vive – anche qui - in un’eleganza raccolta; sa bene che la contempora­neità ha scelto di «andare verso l’asprezza tagliente, la densità fauve che caratteriz­za la pagina di Céline», ma egli si ritrae in un severo colloquio interiore: «L’ideale, l’utopia non sono altro che questo dialogo continuo con i propri limiti, per forzarli sul piano dell’autenticit­à». Un uomo, un maestro di dialogo e silente rispetto: «Conservo la mia convinzion­e, o illusione, di essere un io che va alla ricerca continua di un noi, in una battaglia continua contro la solitudine». Ha aperto orizzonti così ampi che la solitudine non poteva che esserne la misura, come un pellegrino di deserti, un cartografo di confini non tracciati; se Mario Praz fu l’irrequieto araldo della curiositas, Raimondi vegliò a un’inesausta “ronda di notte”, per sé e per tutti noi.

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