Due «patriarchi» attivissimi
Luigi Bettazzi e Paolo De Denedetti protagonisti ancora molto seguiti della cultura religiosa contemporanea
«N on si insegna quello che si v uol e ; di r ò addirittura che non s’insegna quello che si sa o quello che si crede di sapere. Si insegna e si può insegnare solo quello che si è». Vorrei applicare queste parole di un personaggio lontano dalla Chiesa ma dotato di grande passione umana e politica, il socialista francese Jean Jaurès, assassinato a 55 anni nel 1914 da un fanatico nazionalista, a due figure molto diverse tra loro che, in modi differenti, hanno testimoniato la verità in cui credevano. Ora sono giunti a una vecchiaia patriarcale, ma continuano a confermare il motto dell’anziano poeta dei Salmi, convinto che i giusti «nella vecchiaia daranno ancora frutti, saranno verdi e rigogliosi» come le palme e i cedri del Libano ( Salmo 92,13-15). In realtà, aveva però ragione anche La Rochefoucauld quando nelle sue Massime affermava che «pochi sanno essere vecchi».
Il primo personaggio che faccio entrare in scena è l’unico vescovo italiano, ancora in vita, che ha partecipato al Concilio Vaticano II, Luigi Bettazzi, 92 anni, quasi 70 di sacerdozio, 52 anni di episcopato. Nonostante questa imponente cronologia, egli è ancora attivo e vivace, tiene conferenze spostandosi da una città all’altra in treno, riceve persone, scrive libri. Ed è proprio del suo ultimo testo che vogliamo brevemente parlare: la sua è una bibliografia fitta, affidata spesso a libretti essenziali, al- cuni capaci di lasciare il segno, come la famosa Lettera a Berlinguer del 1976 o come i suoi scritti sulla pace e la giustizia, espressione di una passione che gli ha meritato nel 1985 il Premio Unesco per l’Educazione alla Pace.
Ma il cuore del suo impegno pastorale e teologico pulsa sempre per l’eredità conciliare da tener viva e fiammante, anche quando sembra ridotta a una brace sulla quale si è depositato il velo della cenere dell’abitudine e della regressione. Questo breve saggio, che il vescovo emerito di Ivrea (lo fu per ben 33 anni!) ora propone, raccoglie in una sorta di testamento – l’ultima riga suona, infatti, così: «Sono ormai agli sgoccioli della mia vita...» – il profilo della Chiesa da lui sognata e amata sulla scia della visione conciliare, ma anche rimandando alla matrice originaria, quella neotestamentaria. Il titolo stesso, Quale Chiesa? Quale papa?, fa intuire la meta dell’itinerario che si dipana in queste pagine.
Esse sono scandite da capitoletti ininterrottamente segnati dalla parola “Chiesa” e spesso marcati dall’interrogativo: una Chiesa “cristiana”, aperta a tutti, nel suo germe antropologico universale, nella sua nascita evangelica, nel suo confronto con la società e la secolarità, coi suoi due volti “in sé” ( ad intra) e “per gli altri” ( ad extra), col suo essere comunione (e qui entra il tema della “collegialità” caro al Concilio ma anche a papa Francesco), e quindi con la figura e la missione del Vescovo di Roma, successore di Pietro. Il discorso di monsignor Bettazzi è spontaneamente aperto agli orizzonti più ampi: sembra quasi che egli s’affacci sempre oltre il perimetro ecclesiale o lo voglia allargare rispetto a una mera definizione canonica, pur legittima.
Scrive, infatti: «Sono risalito alla domanda di che cosa debba intendersi per Chiesa, di come si possano trovare tracce di Chiesa precedenti alla Chiesa cattolica o alla Chiesa cristiana, e come questa realtà possa essere in qualche modo allargata fino ad accogliere quanti sono in cammino verso il regno dei cieli o comunque già ne facciano parte, quasi identificando appunto la denominazione di Chiesa a quella più ampia di regno di Dio». Domande, certo, teologiche che hanno però ridondanze di taglio ecumenico, pastorale e persino morale ed esistenziale. È per questo che monsignor Bettazzi giunge a configurare una descrizione di Chiesa in contrappunto. Essa è paradossalmente “tradizionale” – nel senso genuino del termine, che suppone un nesso genetico e dinamico con le origini cristiane – ma è anche attuale, incastonata nell’oggi: molti ritengono che «compito della Chiesa sia garantire la propria vita, struttura e libertà; ci si è resi con-
uomini di fede | Luigi Bettazzi (a sinistra) e Paolo De Benedetti to invece che la Chiesa deve farsi voce di quanti non hanno voce e deve promuovere i diritti di chi si sente emarginato».
Parlavo sopra di due figure che accosto molto liberamente. L’altra è quella di Paolo De Benedetti, un altro notissimo personaggio “patriarcale” e di frontiera. Come suggeriva il pensatore ebreo alessandrino Filone ( I sec.), il sapiente è un uomo methórios, cioè sul confine di due territori, sul crinale di due versanti. Ecco, De Benedetti è stato un vero hakam, un “sapiente” biblico che si è collocato sul terreno tra cristianesimo e giudaismo, anche per la sua esperienza personale, che si è posto sulla linea discriminante tra cultura religiosa e laica, anzi, che si è attestato nella sua lunga attività editoriale sulle frontiere tra le discipline più diverse. E lo ha fatto sempre con uno sguardo penetrante, originale, creativo, capace di scovare angoli inesplorati, sentieri impervi eppur affascinanti, orizzonti trascurati.
Non per nulla il testo a cui facciamo ora riferimento s’intitola Gli angoli nascosti della Bibbia e sono 63 ritratti di personaggi biblici – dal profeta Abacuc al principe Zo- robabele – che s’affacciano nelle Scritture ebraiche col loro volto non sempre ben tracciato, anzi, talora soltanto abbozzato. Tuttavia, anche quando il loro profilo è noto (Assalonne, Daniele, Geremia, Salomone, Saul, Tobia...), De Benedetti riesce a gettare un raggio di luce su un lineamento oscurato o inatteso. Basti leggere, ad esempio, il primo medaglione dedicato ad Abacuc, al quale di primo acchito è riservata la sostanza del profilo che si trova in ogni lessico biblico. Ma ecco, a sorpresa, l’evocazione di immagini sorprendenti come quella del pescatore, dei «lupi vespertini», del «vento infuocato». Ecco il configurarsi del profeta come «un nuovo Giobbe», ecco l’epifania del Dio terribile che «logora le montagne» e «fa urlare l’abisso», un Dio invisibile e innominabile che sembra persino non amare di essere amato. «La preghiera di Abacuc allora è incenso, non è ponte: egli non aveva diritto di pregare come san Francesco. Le anime cadevano nell’abisso: solo le grida potevano valicarlo e giungere al Paradiso, fino a che il Verbo non si facesse carne e cessassero i profeti».
È come se fossimo alla fine davanti a una pala d’altare, dipinta con colori accesi, ricorrendo a quella intuizione ermeneutica giudaica per cui la Parola di Dio ha settanta sensi – e De Benedetti propone di cercarne anche un settantunesimo – ed è capace di sprizzare mille scintille, come quando si spacca la roccia con un martello (vedi Geremia 23,29). La visita a questa galleria iconografica biblica è, quindi, un itinerario nel quale si scopre la vera arte del pittore (e, in questo caso del biblista) così come la definiva quel grande artista che è stato Paul Klee: «L'arte non rappresenta il visibile ma l’Invisibile che si cela nel visibile». Anzi, come scriveva Paul Valéry nei Cattivi pensieri, «il pittore non deve dipingere quello che vede, ma quello che si vedrà». Sì, perché «interpretare è dire il non detto» di un testo, come concludeva Heidegger.
Il vescovo emerito di Ivrea si interroga sul ruolo del Papa e della Chiesa. Lo studioso biblico ci invita ad entrare negli angoli nascosti delle Sacre Scritture