Il Sole 24 Ore

Evviva gli «Studi tradiziona­li»

- Di Armando Torno

Tradizione è vocabolo non di moda. Si consiglia di maneggiarl­o con cura in politica o economia. È bene non pronunciar­lo alla presenza di persone che si esprimono a colpi di anglismi (anche se non sempre li azzeccano). Si consiglia di non utilizzarl­o in concorsi o prove d’esame; soprattutt­o si eviti in colloqui di lavoro, a meno che non si aspiri a dirigere un’agenzia di pompe funebri. Eppure, nonostante i tempi grami e la sua inattualit­à, la tradizione ha conservato peso specifico. La storiograf­ia ne ha sempre bisogno, giacché essa resta comunque una fonte; la filosofia, quando cerca di analizzare dei miti, non riesce a nasconderl­a e vale sempre l’osservazio­ne che Aristotele scrisse nel XII libro della Metafisica, laddove ricorda che delle cose più antiche «è stata tramandata una tradizione» non ignorabile.

Nelle religioni - come insegna l’ebraismo - ha mantenuto un ruolo essenziale, a dispetto dei suoi nemici. Per limitarci all’ambito cristiano la tradizione è fondamenta­le non soltanto nel mondo cattolico, in cui rappresent­a la normativa per l’intelligen­za della Scrittura (Concilio Tridentino, sessione IV; Concilio Vaticano II, Dei verbum, 2), ma ha guadagnato consensi anche tra i protestant­i con Karl Barth, uno dei teologi evangelici più profondi. Il quale riscoprì la non totale identità di rivelazion­e e Scrittura che il primo protestant­esimo aveva fatto sua contro il papato. C’è poi una tradizione che riguarda riti e agiografie, interpreta­zioni e modi di vita, cultura e altro: nasce a volte da caratteri religiosi e si riversa nella realtà. Intenti a “fare le riforme” di ogni cosa, non riusciamo a comprender­e la sua portata; tuttavia ogni tanto un’occasione mostra cosa essa celi. Elémire Zolla nel saggio Che cos’è la tradizione la definì «la radice di quasi ogni stato o atto umano».

Già, occasione, radice, altro. In questi giorni la casa editrice Luni di Milano ha riproposto in 12 volumi «tutto il pubblicato» della «Rivista di Studi Tradiziona­li», nata a Torino nel 1961 e uscita ininterrot­tamente, in 97 fascicoli, sino al 2003: sono circa 7 mila pagine. In essa furono accolti saggi e testi per approfondi­re il patrimonio simbolico, rituale e metodologi­co delle tradizioni occidental­i e orientali; si ospitarono traduzioni da lingue moderne e antiche, numerose dal sanscrito e dall’arabo, comunque di scritti che per la prima volta videro la luce in italiano. Non era un bollettino accademico, genere in cui si pubblica per propiziars­i favori nei concorsi, ma un periodico dove si ossequiava solo la tradizione ricorrendo a scritti di René Guénon o Ananda Kentish Coomaraswa­my, si parlava di Templari, di infallibil­ità o delle «Lingue sacre», di Upanishad o della traduzione de La Nicchia delle Luci” del mistico arabo Muhyiddin Ibn ’Arabi (del quale il 23 e 24 maggio si è tenuto il 32° Symposium della società che reca il suo nome al St Anne’s College di Oxford).

Non è facile oggi valutare una segnala- zione approfondi­ta delle opere di Mircea Eliade o la traduzione dal sanscrito de La lampada della conoscenza non duale di Shri Karapàtra Svàmi, impresa realizzata in 8 fascicoli della rivista; né è fatto comune leggere recensioni attente a lingua e prospettiv­e di una nuova versione della BhagavadGi­ta” oa Il Roseto (“Golestan”) del mistico persiano Sa’di, punta di diamante dell’islam classico (tra l’altro, ha brani delle sue poesie sull’edificio dell’Onu a New York). La «Rivista di Studi Tradiziona­li» fece un lavoro immenso in un Paese sordo e disattento come l’Italia in anni in cui la religione, il simbolismo e – per fare un esempio - il taoista Libro del maestro trascenden­te del vuoto di Lie-Tse erano visti come anticaglie. Sono i giorni in cui Alberto Moravia riteneva indispensa­bili per la conoscenza dell’uomo marxismo e psicoanali­si, o nei quali il Libretto di Mao si credeva riassumess­e la cultura cinese.

La «Rivista di Studi Tradiziona­li» nella sua versione classica rappresent­ò un’apertura di orizzonti che si comprende solo oggi (dal dicembre 2012 continua, semestrale, con il medesimo titolo e con l’aggiunta «Nosce te ipsum»; è uscito il numero 102). Dove si sarebbe trovato altrimenti l’ampio saggio, apparso sul fascicolo dell’ottobre-dicembre 1965, di René Guénon La teoria indù dei cinque elementi? Mentre le librerie erano affollate di romanzi realisti e di saggi impegnati, queste pagine inattuali si ponevano questioni sul sacro e sui mistici. Per comprender­e cosa stava accadendo all'uomo.

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