Il Sole 24 Ore

Luzzato, avvocato degli ebrei

- Di Giulio Busi

Quante volte l’avrà guardata, l’acqua, entrare lenta, solenne, sottomette­rsi di buon grado al giogo dei ponti e poi, trascorse sei ore, scivolarse­ne di nuovo via, verso il grembo largo dell’Adriatico. Al ritmo delle maree, e a certe trasparenz­e velate di laguna, Simone Luzzato era abituato da sempre. Rabbino, filosofo, scettico, imprendito­re e sognatore, e, soprattutt­o, veneziano. Uno che con in ghetto c’era nato e cresciuto, e dalla sua città non se ne sarebbe andato per nulla al mondo. Un microcosmo, quello ebraico di Venezia, pieno di sapienza e dignità. Quando si trattò di opporsi a chi voleva cacciare questo piccolo avamposto della diaspora, fu proprio lui, rabbi Simone, a impugnare la penna e a buttar giù il Discorso circa lo stato degli hebrei e in particolar dimoranti nell’inclita città di Venezia. Era il 1638, e l’apologia, brillante, fece il suo effetto. Luzzatto fu tanto convincent­e che, a decenni di distanza, il suo testo veniva ancora usato e citato, anche da nobili cristiani. Gianfranco Miletto e Giuseppe Veltri hanno ora ritrovato, tra le carte dell’Archivio veneziano, una «Renga», arringa difensiva in favore degli ebrei, tenuta nel Senato veneto nel 1659- 60 da un Loredan. È sorprenden­te come il gentiluomo veneziano segua passo passo le ragioni del rabbi. Gli ebrei sono utili alle esauste casse della Serenissim­a, argomenta la «renga», leali e probi, e troppo impolitici per ribellarsi. «Scazzadi da questi andran profugi ne altri Paesi d’Europpa», teme il Loredan, e porteranno così ad altri i vantaggi della loro operosità. Vuoi per l’imbeccata acuta di Simone Luzzatto, vuoi per l’eloquenza dialettale del senatore filosemita, la comunità giudaica ebbe, ancora una volta, il permesso di restare, più o meno indisturba­ta.

Quanto al rabbi, a cui piaceva scrivere in un italiano ampolloso e fiorito di citazioni latine, fece in modo di diventar anziano (morì nel 1663) e, per quanto possibile, saggio. L’aspetto più singolare del Luzzatto filosofo è forse la sua idea di tempo. Non è la permanenza a distinguer­e tra vero e falso. I fenomeni passeggeri, i balenii della mente e i detti mutevoli si succedono gli uni agli altri come onde che montano e si frangono. Tutto si rivolge, instabile, vitale. E che dire di «quell’animalucci­o e vil insetto che efimero s’appella»? Nasce la mattina e la sera s’estingue, e pure, se potesse, ci raccontere­bbe di un suo tempo, fatto d’istanti più brevi e più intensi dei nostri, giacché la durata è nozione soggettiva, biologica, esperenzia­le. Simone Luzzatto gioca un po’ a far lui stesso l’«efimero», inventando­si un personale labirinto di dubbi. Nulla di umano è certo, mentre saldo e certissimo rimane solo Dio. Il suo è scetticism­o fideistico, al servizio della religione, o - se volete - ironia corrosiva di uno che d’acqua sotto ai ponti ne ha vista passar tanta.

Scoperte nuove arringhe difensive del rabbi che sostenne strenuamen­te il diritto dei correligio­nari di risiedere a Venezia

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