Uno: privatizzare almeno un po’
Con Rai 1 sul mercato avremmo un terzo polo in chiaro, una netta separazione con la tv commerciale e contenuti definiti
Secondo una recente inchiesta, la Rai è il servizio pubblico più visto d’Europa e a minor costo per gli utenti. Non c’è dubbio, quindi, che la programmazione colga bene i gusti di una larga parte degli spettatori. E allora perché si parla da sempre, insistentemente, di riforma della tv pubblica, come se si trattasse di una perenne emergenza del Paese? Probabilmente perché la Rai non si è dimostrata una azienda ben gestita (a parte gli ultimi esercizi, i conti sono classicamente “in rosso”). Né è ritenuta un buon servizio pubblico, per più di una ragione. Anzitutto, la sua missione complessiva è poco chiara per la compresenza del canone e di una programmazione che per buona parte ricalca quella delle concorrenti commerciali. Poi, come ognuno sa, è così condizionata dagli equilibri della politica da esserne dipendente oltre ogni fisiologico effetto. Inoltre, la normativa è obsoleta: l’unica legge che ha definito i princìpi del servizio pubblico risale al 1975, quando di canali ve n’erano due e non qualche centinaia come ora.
In questo quadro, pure l’attuale governo prova a intervenire con un disegno di legge che tocca soprattutto due profili. Da un lato, modifica il sistema di nomina degli amministratori; non più nove membri, per la gran parte espressione delle forze parlamentari attraverso la commissione di vigilanza (benché due indicati dall’ese- cutivo), ma sette, con una più forte componente governativa e un membro designato dai dipendenti dell’azienda. Dall’altro, introduce la figura dell’amministratore delegato, anch’esso di nomina sostanzialmente ministeriale. Costui, stando alla nota di presentazione del testo, è un «capo azienda … in grado di prendere le decisioni e di essere chiamato a risponderne». In questa stessa ottica, la disciplina della Rai si avvicina a quella delle ordinarie società per azioni, compresa la Guendalina Salini, «Fine delle trasmissioni», disegno a gesso su coperta di lana non applicazione del codice degli appalti.
Se quindi si può guardare con ottimismo alla maggiore agilità dei meccanismi di gestione dell’azienda, una certa mestizia subentra nel prendere atto che nemmeno il presidente rottamatore riesce a produrre una cesura nei rapporti incestuosi tra politica e televisione. Né realizza quanto troppe volte comandato dalla Corte costituzionale, ovvero fondare un servizio pubblico plurale e, soprattutto, indipendente dal potere, capace anzi di svol- gere quella funzione di contropotere che in fondo ne legittima l’esistenza.
La delusione nasce dall’illusione; il governo aveva promesso di «togliere la Rai ai partiti per darla ai professionisti», cioè a chi la sa fare e far funzionare. In realtà, non solo sei membri su sette sono nominati dalla politica, ma mancano pure i meccanismi che potrebbero evitare scelte dettate esclusivamente da criteri di appartenenza. Ad esempio, le audizioni dei candidati; l’incompatibilità con cariche pubbliche precedenti; rigorosi requisiti di competenza.
Su questo punto il disegno di legge è conservatore se non quasi reazionario, poiché sembra addirittura riconsegnare al governo quel ruolo centrale che aveva perduto con la riforma del 1975, quando il baricentro dell’indirizzo e del controllo si era spostato verso il parlamento.
C’è poi un ambito sul quale il disegno di legge tace. Si tratta del tema su cui da anni si attende una risposta e un cambio di rotta. Oggi riformare la Rai significa, quasi per antonomasia, delineare il ruolo del servizio pubblico nei prossimi decenni. E in maniera molto schematica e se vogliamo un po’ manichea, decidere se la Rai debba accentuare la sua diversità rispetto alle televisioni commerciali. Ciò significherebbe affrancarla dai condizionamenti degli ascolti immediati nonché consentirle una maggiore libertà nell’innovazione tecnologica e nella sperimentazione del linguaggio.
Qui stenta a percepirsi quel profumo di rinnovamento che in alcuni settori si è in effetti diffuso con l’azione del governo. Forse l’esigenza di evitare un nuovo consiglio eletto con le regole della legge Gasparri ha spinto a circoscrivere gli obiet- tivi. Confidando, tuttavia, sul giovanile impeto dell’esecutivo, auspichiamo che il problema sarà comunque affrontato e in qualche modo risolto. A noi, che vorremmo un servizio pubblico lontano parimenti dalla politica e dalle logiche di un’azienda solo commerciale, è venuta in mente un’idea: privatizzare Raiuno. Quello che potrebbe sembrare un paradosso, invece, a ben guardare avrebbe più di un pregio. Con uno solo ritocco – va bene, forse ritocco è riduttivo, diciamo riforma epocale – a costo zero, si potrebbero ottenere svariati benefici: creare finalmente il terzo polo televisivo in chiaro, separare servizio pubblico e tv commerciale, snellire la struttura, consent endo all a Rai di distillare meglio i contenuti della programmazione secondo la sua missione tipica.
Parafrasando il “buon vecchio” Keynes, importante per il servizio pubblico non è fare le cose che gli individui stanno già facendo e farle un po’ meglio o un po’ peggio, ma fare le cose che al presente non vengono fatte per niente. Venerdì 5 giugno alle ore 11, nell’Aula dei Gruppi Parlamentari della Camera dei Deputati, si svolgerà la cerimonia conclusiva del Progetto Articolo 9 della Costituzione, alla presenza della presidente Laura Boldrini. Oltre 13mila studenti provenienti da tutto il territorio nazionale, e dalle scuole italiane all’estero, si sono confrontati sulla possibilità di superare la crisi attraverso la cultura e il patrimonio storico-artistico e, con il supporto dei loro insegnanti, al di fuori delle aule, hanno raccontato attraverso un video il loro impegno a favore della comunità. La cerimonia sarà trasmessa in diretta streaming sul sito del progetto www.articolo9dellacostituzione.it