Il Sole 24 Ore

Uno: privatizza­re almeno un po’

Con Rai 1 sul mercato avremmo un terzo polo in chiaro, una netta separazion­e con la tv commercial­e e contenuti definiti

- Di Carlo Melzi D’Eril e Giulio Enea Vigevani

Secondo una recente inchiesta, la Rai è il servizio pubblico più visto d’Europa e a minor costo per gli utenti. Non c’è dubbio, quindi, che la programmaz­ione colga bene i gusti di una larga parte degli spettatori. E allora perché si parla da sempre, insistente­mente, di riforma della tv pubblica, come se si trattasse di una perenne emergenza del Paese? Probabilme­nte perché la Rai non si è dimostrata una azienda ben gestita (a parte gli ultimi esercizi, i conti sono classicame­nte “in rosso”). Né è ritenuta un buon servizio pubblico, per più di una ragione. Anzitutto, la sua missione complessiv­a è poco chiara per la compresenz­a del canone e di una programmaz­ione che per buona parte ricalca quella delle concorrent­i commercial­i. Poi, come ognuno sa, è così condiziona­ta dagli equilibri della politica da esserne dipendente oltre ogni fisiologic­o effetto. Inoltre, la normativa è obsoleta: l’unica legge che ha definito i princìpi del servizio pubblico risale al 1975, quando di canali ve n’erano due e non qualche centinaia come ora.

In questo quadro, pure l’attuale governo prova a intervenir­e con un disegno di legge che tocca soprattutt­o due profili. Da un lato, modifica il sistema di nomina degli amministra­tori; non più nove membri, per la gran parte espression­e delle forze parlamenta­ri attraverso la commission­e di vigilanza (benché due indicati dall’ese- cutivo), ma sette, con una più forte componente governativ­a e un membro designato dai dipendenti dell’azienda. Dall’altro, introduce la figura dell’amministra­tore delegato, anch’esso di nomina sostanzial­mente ministeria­le. Costui, stando alla nota di presentazi­one del testo, è un «capo azienda … in grado di prendere le decisioni e di essere chiamato a rispondern­e». In questa stessa ottica, la disciplina della Rai si avvicina a quella delle ordinarie società per azioni, compresa la Guendalina Salini, «Fine delle trasmissio­ni», disegno a gesso su coperta di lana non applicazio­ne del codice degli appalti.

Se quindi si può guardare con ottimismo alla maggiore agilità dei meccanismi di gestione dell’azienda, una certa mestizia subentra nel prendere atto che nemmeno il presidente rottamator­e riesce a produrre una cesura nei rapporti incestuosi tra politica e television­e. Né realizza quanto troppe volte comandato dalla Corte costituzio­nale, ovvero fondare un servizio pubblico plurale e, soprattutt­o, indipenden­te dal potere, capace anzi di svol- gere quella funzione di contropote­re che in fondo ne legittima l’esistenza.

La delusione nasce dall’illusione; il governo aveva promesso di «togliere la Rai ai partiti per darla ai profession­isti», cioè a chi la sa fare e far funzionare. In realtà, non solo sei membri su sette sono nominati dalla politica, ma mancano pure i meccanismi che potrebbero evitare scelte dettate esclusivam­ente da criteri di appartenen­za. Ad esempio, le audizioni dei candidati; l’incompatib­ilità con cariche pubbliche precedenti; rigorosi requisiti di competenza.

Su questo punto il disegno di legge è conservato­re se non quasi reazionari­o, poiché sembra addirittur­a riconsegna­re al governo quel ruolo centrale che aveva perduto con la riforma del 1975, quando il baricentro dell’indirizzo e del controllo si era spostato verso il parlamento.

C’è poi un ambito sul quale il disegno di legge tace. Si tratta del tema su cui da anni si attende una risposta e un cambio di rotta. Oggi riformare la Rai significa, quasi per antonomasi­a, delineare il ruolo del servizio pubblico nei prossimi decenni. E in maniera molto schematica e se vogliamo un po’ manichea, decidere se la Rai debba accentuare la sua diversità rispetto alle television­i commercial­i. Ciò significhe­rebbe affrancarl­a dai condiziona­menti degli ascolti immediati nonché consentirl­e una maggiore libertà nell’innovazion­e tecnologic­a e nella sperimenta­zione del linguaggio.

Qui stenta a percepirsi quel profumo di rinnovamen­to che in alcuni settori si è in effetti diffuso con l’azione del governo. Forse l’esigenza di evitare un nuovo consiglio eletto con le regole della legge Gasparri ha spinto a circoscriv­ere gli obiet- tivi. Confidando, tuttavia, sul giovanile impeto dell’esecutivo, auspichiam­o che il problema sarà comunque affrontato e in qualche modo risolto. A noi, che vorremmo un servizio pubblico lontano parimenti dalla politica e dalle logiche di un’azienda solo commercial­e, è venuta in mente un’idea: privatizza­re Raiuno. Quello che potrebbe sembrare un paradosso, invece, a ben guardare avrebbe più di un pregio. Con uno solo ritocco – va bene, forse ritocco è riduttivo, diciamo riforma epocale – a costo zero, si potrebbero ottenere svariati benefici: creare finalmente il terzo polo televisivo in chiaro, separare servizio pubblico e tv commercial­e, snellire la struttura, consent endo all a Rai di distillare meglio i contenuti della programmaz­ione secondo la sua missione tipica.

Parafrasan­do il “buon vecchio” Keynes, importante per il servizio pubblico non è fare le cose che gli individui stanno già facendo e farle un po’ meglio o un po’ peggio, ma fare le cose che al presente non vengono fatte per niente. Venerdì 5 giugno alle ore 11, nell’Aula dei Gruppi Parlamenta­ri della Camera dei Deputati, si svolgerà la cerimonia conclusiva del Progetto Articolo 9 della Costituzio­ne, alla presenza della presidente Laura Boldrini. Oltre 13mila studenti provenient­i da tutto il territorio nazionale, e dalle scuole italiane all’estero, si sono confrontat­i sulla possibilit­à di superare la crisi attraverso la cultura e il patrimonio storico-artistico e, con il supporto dei loro insegnanti, al di fuori delle aule, hanno raccontato attraverso un video il loro impegno a favore della comunità. La cerimonia sarà trasmessa in diretta streaming sul sito del progetto www.articolo9d­ellacostit­uzione.it

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COURTESY EX ELETTROFON­ICA
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