Abanowicz, che folla!
Mentre le opere di Spalletti fanno rivivere le stanze private del conte Vittorio nel Palazzo di San Vio, l’Isola di San Giorgio è segnata dalla potente installazione dell’artista polacca
Èa Ettore Spalletti che Luca Massimo Barbero ha affidato il compito di inaugurare le nuove sale espositive, al secondo piano, di Palazzo Cini a San Vio. Quelle stanze inondate di luce facevano parte del quartiere privato del conte Vittorio Cini (1885-1977), che aveva invece destinato il piano nobile alla vita pubblica e all’esposizione delle sue superbe collezioni.
Frutto della passione febbrile («furor faustiano» per Bernard Berenson) di quest’uomo ricchissimo e innamorato di tutto ciò che fosse “bello”, raro, prezioso, raffinato, inusuale, le raccolte di Vittorio Cini sono alquanto eccentriche rispetto ai percorsi veneziani: lui che era di origini ferraresi (e si faceva consigliare dal conterraneo Nino Barbantini), aveva infatti riunito qui una collezione squisita di dipinti del Rinascimento estense, da Cosmè Tura, Ercole de’ Roberti, Marco Zoppo, al prezioso ma poco noto Ludovico Mazzolino, fino a Dosso Dossi, di cui volle l’enigmatica scena allegorica che era stata sul soffitto della camera da letto di Alfonso d’Este. Ma questa non era certo l’unica sua passione collezionistica: nelle sale del piano nobile ci s’imbatte in veri tesori di arti decorative (come la raccolta di smalti dal XIII al XVII secolo, seconda solo a quella del Louvre), in meravigliosi dipinti su tavola, per lo più toscani, distribuiti tra la Sala dei Primitivi, dove teneva le cene di gala, la splendente Sala dei Polittici e la Sala del Rinascimento toscano, salotto destinato agli ospiti più illustri e scrigno che racchiudeva (e racchiude tuttora, grazie alla ge- nerosità della figlia Yana Cini Alliata di Montereale) i tesori più preziosi della collezione, da Filippo Lippi a Beato Angelico, da Piero della Francesca (o un suo dotatissimo allievo) a Botticelli e Piero di Cosimo, fino al meraviglioso Doppio ritratto di amici del Pontormo.
Meticolosamente restaurate, grazie ad Assicurazioni Generali, con un intervento nascosto ma attentissimo, e riaperte lo scorso anno, queste sale riflettono al meglio lo stile del palazzo: «mi piace dire che Palazzo Cini sia un palazzo “nascosto in evidenza” -commenta Luca Massimo Barbero, direttore dell’Istituto di Storia dell’Arte della Fondazione Cini -. Qui non ci sono atrii grandiosi né scaloni monumentali, come altrove a Venezia, e il portone stesso, a ridosso del ponte, è poco visibile, quasi segreto». Ma una volta entrati ci s’immerge nel lusso vero: il lusso del silenzio, in una Venezia percorsa da un turismo frettoloso e schiamazzante, e il lusso di un'esclusività fatta di opere uniche in città, gustate come in una visita al collezionista.
È da queste stanze e da questi capolavori (del Beato Angelico e di Piero soprattutto, così amati per i loro colori) che Ettore Spalletti è partito quando con Luca Massimo Barbero ha pensato al suo progetto, realizzato da Aslc, per le nuove sale del secondo piano. Qui, abbagliati dalla luce chiarissima, ci s'immerge in una mostra ordinata come un'unica, fluida installazione. Fra i suoi dipinti e le sculture (di alabastro soprattutto, intriso di luce), trovano posto anche due grandi e rari lavori su carta ideati negli anni ’70, non incorniciati e come “vivi”, che s’incurvano impercettibilmente, o si distendono, con l’umidità dell’aria. Gli azzurri atmosferici e trascoloranti e i rosa luminosi dei suoi lavori, spesso illuminati dal bagliore sommesso della foglia d'oro che riveste segretamente lo spessore delle tavole e si riverbera appena sulle pareti, entrano così in risonanza con gli spazi di queste stanze private e con la luce ineguagliabile di Venezia, e regalano un'esperienza di “accoglimento” di un’assolutezza quasi mistica.
Sull’Isola di San Giorgio, sede della Fondazione Giorgio Cini, vanno in scena altre mostre: nel Cenacolo Palladiano Das Meisterstück di Matthias Schaller, con le grandi immagini fotografiche delle tavolozze di dieci maestri dei due ultimi secoli, e poi Enki Bilal e Liu Xiaodong e, nelle Stanze del Vetro, la rassegna sul Vetro finlandese nella Collezione Bischofberger. Ma soprattutto, fino al 2 agosto, la Fondazione Cini regala l'emozione di Crowd and Individual, installazione di Madgdalena Abanowicz, curata anch'essa da Barbero.
Nata vicino a Varsavia nel 1930, Abanowicz aveva nove anni quando la Germania invase la Polonia ed era appena adolescente quando vide irrompere nel suo Paese l’Armata rossa. Lei che era cresciuta nelle grandi dimore di famiglia, si ridusse a vivere in un monolocale. Scelse così di lavorare con materiali tessili e iniziò il percorso che nel 1965 l’avrebbe portata a vincere la Medaglia d’oro alla Biennale di San Paolo e a guadagnarsi, con quelle sue opere così “diverse”, di fibre naturali, una fama internazionale. Eppure, sebbene da allora sia stata presente ai maggiori appuntamenti del contemporaneo, Abanowicz è rimasta, deliberatamente, ai margini del mainstream. Tanto che questo lavoro, a 35 anni dalla presenza alla Biennale di Venezia del 1980, ha quasi il sapore di una riscoperta. Che la riconferma come un’artista d’incredibile potenza, intenta ancora una volta a riflettere sulla tragedia della spersonalizzazione dell’individuo, sulla paura dell’oppressore e, al tempo stesso, sul coraggio di opporvisi con fierezza. L’opera, corale, si scopre a poco a poco, vedendo dapprima il dorso della “bestia” misteriosa e terribile che tiene a bada la folla delle sue celebri figure, quasi tutte prive di testa, spesso anche delle braccia: poco più che gusci, ora concavi ora convessi, rivestiti di una ruvida tela suturata, che si muovono in tempo astorico, primordiale. La folla sembra avanzare, ma sono i bambini a porsi davanti a tutti, a fronteggiare la bestia: inconsapevolezza? O piuttosto la forza di chi, come lei bambina, sognò di sfuggire alla brutalità degli invasori? Su questo lavoro sconvolgente, che evoca emozioni personali e universali a un tempo, ognuno può proiettare i propri vissuti. Ne uscirà sicuramente cambiato.
Il Cenacolo Palladiano offre anche «Das Meisterstück» di Matthias Scaheller, Enki Bilal e Liu Xiaodong, e una rassegna sul Vetro Finlandese