E Donatello si fa in due
Due mostre in contemporanea celebrano il periodo padovano di Donatello, durato un decennio circa e terminato nel 1453, quando il genio fece ritorno a Firenze “per non morire fra quelle ranocchie di Padova”. Come è noto, questo soggiorno rivestì un ruolo dirompente nello svolgimento delle arti del nord d'Italia in senso moderno.
La prima rassegna si concentra sulla lezione di Donatello e la sua irradiazione nella scultura e nell'oreficeria patavina, nell'arco temporale di un cinquantennio (benché al cospetto di Donatello i calcoli numerici siano resi vani dall'imponenza di una “lezione” che è tale da sfuggire anche ai più puntuali rendiconti). Va comunque riconosciuto che il fenomeno rivoluzionario della presenza nel Veneto del maestro venne percepito in vario modo, il che depone a favore dei seguaci, i quali, pur presi da incantamento, riuscirono a mantenere una certa indipendenza, fondata sull'abilità tecnica, manifesta nella modellazione della terracotta e nella fusione del bronzo.
Lo confermano, meglio di altri proseliti, Bartolomeo Bellano, allievo giovanissimo di Donatello e suo fedele aiuto ancora nelle opere estreme, vedi i pulpiti fiorentini di San Lorenzo, e Andrea Briosco detto il Riccio, autore del candelabro di bronzo della basilica di Sant'Antonio, cui attese sino al 1516. Essendo inamovibile, la mostra, curata da Davide Banzato ed Elisabetta Gastaldi, presuppone un percorso esterno, mentre fra le opere esposte e visibili da vicino compaiono due degli otto bellissimi rilievi di bronzo con scene bibliche, realizzati dal Bellano per il presbiterio della basilica, e due statue del Riccio, raffiguranti i Santi Canziano e Canzianilla, che sono quanto di più classicheggiante si conservi a Padova.
La chiesa di San Canziano, dove sono custodite, non rientra negli itinerari turi- stici, così come non è contemplata quella dei Servi. E' da questo edificio di culto che proviene un “Crocifisso”, fulcro della seconda mostra, curata da A. Nante e E. Francescutti. In una sala del bel museo Diocesano, sono esposti il “Crocifisso” ligneo di Donatello di Santa Croce a Firenze, databile fra il 1408 e il 1409, quello di bronzo oggi all'altare maggiore della basilica del Santo e in origine nel tramezzo della crociera, databile tra il 1443 e il '49, di fronte al quale è veramente difficile trattenere una forte emozione, e quello “nuovo” dei Servi, di dimensioni oltre il naturale (legno, cm 192x185), pubblicato come autografo donatelliano nel 2008 da Francesco Caglioti, e da poco sottoposto a un difficile restauro, compiuto nel laboratorio della Soprintendenza di Udine.
I tre esemplari, di cui è superfluo sottolineare - piaccia o no - il lancinante impatto devoto, sono i protagonisti di questa rassegna, che ritengo una delle meno risapute, fra le tante inaugurate dall'inizio del 2015, per la varia reazione che è in grado di produrre nel pubblico: dal semplice stupore, alla dotta disamina filologica. La straordinaria scultura dei Servi era stata oggetto di scarso interesse critico, sino all'affondo di Caglioti che ha sor- tito un'attribuzione sicura a Donatello e un'ipotesi di datazione entro il 1445. A indirizzare le ricerche contribuì la scoperta, merito di Marco Ruffini, di una annotazione su di una copia della prima edi- zione delle “Vite” di Vasari, nella biblioteca universitaria di Yale.
Sul margine, un anonimo commentatore cinquecentesco, accanto al “Crocifisso” dei Servi, aggiunse il nome di Donatello. Da qui hanno preso avvio l'indagine stilistica e la messa a fuoco degli elementi che del “Crocifisso” attestano la bellezza.
Lungi dal millantare una conoscenza donatelliana poco più che di base, mi sento di sottoscrivere la legittima paternità di questo manufatto, teso, sensibilmente religioso, vicino cronologicamente e somigliante, ma qualitativamente più alto del “San Giovanni Battista” ligneo dei Frari, opera del medesimo Donatello, entro cui non mi risulta si sia mai insinuato il tarlo dell'incredulità.