Siamo finalmente tornate
Paola Turci propone un album maturo, contaminato e indie. Consoli conferma personalità e stile forti con suoni e testi unici
Io Sono, basta così. Per dare vita ad un racconto dei racconti, che raccoglie una discreta gamma emotiva, trent’anni di musica e almeno due generazioni di ascolto. Così ha scelto di tornare al pubblico e alla vita Paola Turci, la ragazza di Sanremo, del Festivalbar e dei bambini da far tenerezza (era il 1989). Con una antologia composta come un unico e non pianificato viaggio, dopo una lunga e solitaria fuga a Parigi, una volontaria reclusione presso l’Alcatraz di Jacopo Fo e la pubblicazione, lo scorso anno, di un memoir, Mi amerò lo stesso (Mondadori), che parla di scelte e di miracoli. Nel gioco delle sinestesie ideali, questo libro può essere agilmente accompagnato dalla lettura della Maestra dei colori di Aimee Bender (minimum fax), raccolta di storie straordinariamente ordinarie, in cui continuamente si scivola nel magico senza accorgersene. Anche queste quindici canzoni sono un labirinto sorprendente, fatto di parole e suoni solo apparentemente normali, quasi banali. Ne sono un esempio due haiku esistenziali, Questa non è una canzone e Quante vite viviamo, due dei tre preziosi inediti dell’album, insieme alla title track. Io sono (Paola Turci) (Effepi/ Warner Music) è il manifesto della rinascita della cantante, della musicista e dell’autrice, un album profondamente terapeutico, curativo per la cantante e dunque in qualche modo balsamico anche per noi, che l’ascoltiamo. È una raccolta che però contiene l’intreccio del concept album e il concetto qui sta tutto nell’autoetnografia di una vita, non solo musicale. «Dopo la mia autobiografia, era arrivato il momento di fare i conti anche con la musica, così ho ripreso in mano la mia storia e l’ho liberata». L’idea è quella di poter cambiare i propri connotati (nella voce, nella musica, nelle ferite del volto) per riuscire, finalmente, a restare se stessi. Così vediamo finalmente la tipa da spiaggia, tutta voce e chitarra acustica aprirsi alla musica elettronica, la cantante pop sperimentare parole e suoni indie, il volto che si celava al ricordo del terribile incidente d’auto, manifestarsi fuori e dentro un album esistenzialmente rivoluzionario. Infatti, il manifesto è evidente sin dalla immagine di copertina. Paola Turci è al centro, un volto di Madonna con cicatrice. In evidenza, la pasta sacra della sofferenza e del perdono. Cosa che evoca una certa, urgente attualità: «ho deciso di non scusarmi più per la mia femminilità», afferma la scrittrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie nel suo recente pamphlet «Dovremmo essere tutti femministi» (Einaudi), Uno dei più preziosi violini di Antonio Stradivari, il “Cremonese”, compie trecento anni. Il Comune di Roma, l'Accademia Nazionale di Santa Cecilia e il Museo del Violino di Cremona celebrano questa ricorrenza venerdì 5 giugno con una giornata dedicata a Stradivari nell'Auditorium Parco della Musica. Al Museo degli strumenti alle 18. Alle 20 recital per violino e piano.
| Paola Turci perché alle donne non venga più concesso quel bottom power che metaforicamente può significare anche avere un bel viso, una bella voce ma non è affatto potere, piuttosto «una via di accesso al potere di un altro». Così, la Turci cerca un riferimento non nella melassa del pop, ma nella voce delle donne di granito del folk alternativo internazionale, in primis Joni Mitchell. Solido e femminista, Io sono è subito asceso al vertice degli album più venduti (dal 5 giugno in tour) nel nostro Paese e potrebbe avere qualche credibile chance altrove. Merito anche delle illustrazioni sonore immaginate da Federico Dragoni, il produttore artistico conosciuto casualmente dalla Turci ad un concerto di Vasco Brondi. Davvero non c’è un filo di marketing, in questo album nato da viaggi, terapie e incontri; cose che succedono, quando non si pianifica. A questo serve vivere con urgenza, a cinquant’anni.
E forse siamo davvero pronti a dirci tutti femministi (cosa affatto scontata, alle nostre sconnesse latitudini) se un’altra cantautrice, con una storia quasi parallela, ha appena guadagnato il Disco d’oro per il suo L’Abitudine di tornare (Universal), uscito solo pochi mesi fa, dopo una discreta assenza dal mercato. Come a dire che al presente si torna se si è disposti a vivere, almeno per un po’. Brutale come le cose vere, l’ottavo album della cantantessa Carmen Consoli (da luglio in tour italiano e ad agosto una ospite italiana del prestigioso Meltdown Festival di David Byrne), è un vero atto di devozione alla vita, opera densa di osservazioni sul reale eppure leggera come le ali di Icaro. E universale, come molte cose generate dall’isola. Atmosfere musicali vintage, non per affrontare ma per raccontare uno sguardo su faccende di tutti come la mafia, l’ecatombe dei migranti, l’intimità della maternità; e la Versione di Carmen del femminicidio («La signora del quinto piano»).
Quasi un doppio ritorno al futuro, quello di Turci e Consoli, voci solide e leggere capaci di una cosa che a molti uomini (colleghi compresi) non è concessa. Scegliere di cambiare, restando fedeli a se stesse.
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