Chailly in pause e gesti
Non ci attrae, di norma, il libro costituito interamente da un’intervista, per quanto essa sia intelligentemente condotta; o, detto con parola un po’ meno inelegante, il libroconversazione. Rare le eccezioni: fra esse, la nostra esperienza registra i libri in cui sia un direttore d’orchestra di forte (ma davvero forte) personalità colui che ci parla dalle pagine. Siamo abbastanza “laici” da saper distinguere un oggetto di riflessione dal soggetto che riflette: un giudice può esprimere idee nobili e assennate descrivendo in dettaglio ignobili esponenti della ’ndrangheta calabrese che alla violenza bestiale uniscono ignoranza bovina e congenita imbecillità. Sì, però talvolta, dopo che i notiziari ci hanno magnificato per mesi e mesi «le magnifiche sorti e progressive» verso cui ci sta avviando una congrega di nerovestiti o rossovestiti o biancovestiti non esattamente limpidi e farfuglianti in pseudoitaliano misto a pseudoinglese e ignari ciò che sia la serie di Fibonacci o il secondo teorema di Fermat, si avverte la necessità di respirare aria pura e di pretendere che alto e nobile sia anche l’oggetto di un discorso. Per questo, a proposito di direttori d’orchestra che amiamo, abbiamo collocato ai posti d’onore nella nostra biblioteca Ernest Ansermet e Igor Markevitch con le loro filosofie della musica, Wilhelm Furtwängler con la sua percezione ravvicinata dell’indicibile, ma anche gli scomparsi da poco come Francesco d’Avalos con la sua autobiogafia piena di “dolorosa gioia”, anche i viventi come Aldo Ceccato con la sua implacabile volontà di avvicinarsi al vero nell’eseguire i classici, o come Riccardo Muti di cui nessuno potrà mettere a tacere l’indignazione dinanzi a un Potere che in Italia tratta l’arte e la cultura nella maniera infame che conosciamo.
Ed ecco Riccardo Chailly, nel momento in cui si avvia la sua presenza alla Scala come direttore musicale a pieno titolo, e stabile. Una voce discreta, nascosta con eleganza (va sottolineato!) in corsivo e oltre la quale ci sembra di riconoscere la conduzione di Enrico Girardi, stimola Chailly su terreni anche molto spinosi, talvolta minati. Gli esiti fondamentali sono due: memoria storica, dichiarazioni di principii, di progetti artistici, di doveri civici. Ci piace scegliere un esempio per la prima delle due direzioni. La memoria, anche la riconoscenza: pensiamo a come ne esce disegnata la figura di Franco Ferrara, del quale un esercito innumerevole di musicisti (a leggere i correnti curricula) ha sempre proclamato di «essere stato allievo»; ma nella maggioranza dei casi si è trattato di una fuggevole frequentazione, se non di una semplice audizione senza storia. «Capitava che (Ferrara) si sedesse al pianoforte chiedendo di dirigerlo. Suonava tutto a memoria, e mentre muoveva le dita sui tasti ti fissava: un attacco sbagliato o poco chiaro, e ti fulminava. Una volta mi chiese, senza alcun preavviso, di dirigere da capo a fondo Finlandia di Sibelius, senza interrompere mai e senza dire una sola parola all’orchestra. Parlavo troppo, secondo lui. “Quantifica col gesto ma taci-, mi suggeriva -....Sii te stesso, raggiungi il tuo scopo espressivo con il tuo fisico”». Confessiamo un profondo senso di benessere, grazie alla precisione e all’essenzialità di Chailly scrittore. Si legga questo libro, anche due o tre pagine al giorno. Non c’è contesa né insofferenza: forse il talento e la grandezza di altri direttori si vedono anche qui, controluce, in nome della musica
tout court, una volta tanto.