I francesi san cos’è l’amore
Anche se a Cannes i film erano modesti, le commedie «rosé» d’Oltralpe riempiono le nostre sale. Perché non ne siamo capaci?
Èvero: i film italiani in concorso a Cannes erano tra i migliori, e non hanno vinto niente. E i film francesi erano troppi e non tutti all’altezza, ma soprattutto si è rivelata balzana l’idea di mettere in concorso un cinema più “medio”, comunicativo, tenendo nella “Quinzaine des Realisateurs” nomi più affermati come Philippe Garrel o Arnaud Desplechin. Cannes, del resto, è l’evento intorno a cui ruota un intero sistema, con decine di titoli che vengono messi in produzione avendo come perno la presenza o meno al festival. Molto più di quanto non sia da noi Venezia, che non può contare su un mercato interno e su un appeal paragonabili.
Ma non si vive di soli festival. E se si allarga lo sguardo alle nostre sale, nelle settimane prima e dopo il festival, ci si accorge che i nostri cinema hanno accolto, più che negli anni scorsi, con buoni esiti tutta una fetta di cinema transalpino, tra il commerciale, il film d’autore e il metà e metà. Una produzione che in parte riempie le sale con prodotti decorosi. Da Pasqua a questa settimana, e senza contare le coproduzioni minoritarie, sono almeno una dozzina i film francesi giunti nelle nostre sale, e altri due se ne annunciato a metà giugno: Love is in the air, commedia aerea con Ludivine Sagnier, e Diamante nero, terrificante traduzione italiana di Bande des filles di Céline Sciamma, ritratto di adolescenti di colore. Quasi tutte commedie: tranne French connection, che è quello andato peggio, e tranne il documentario La squola di Babele, che è comunque un documentario-commedia anch’esso. Magari commedie bizzarre, come Les combattents, anch’esso uscito con un titolo assurdamente in inglese che lo ha probabilmente penalizzato, The Fighters, storia d’amore come lotta letterale tra i sessi, con un ragazzo e una ragazza che si battono tra loro e poi devono sopravvivere nei boschi. O commedie con referente letterario, come Il fascino indiscreto dell’amore, dal romanzo di Amélie Nothomb.
La vera sorpresa degli incassi è stato però La famiglia Bélier, che arriverà forse a tre milioni di euro, e periodicamente si dà il caso di una commedia “carina” che anche in Italia sbanca come, qualche anno fa, lo stucchevole Quasi amici, dei cui autori è uscito di recente Samba, commedia buonista di integrazione e immigrazione e amore, tra un nero e una nevrotica borghese: un altro dei numerosi titoli che cercano di raccontare in rosa l’incontro di culture. Il filone “rosé” è in effetti, generalmente, quello che funziona meglio, specie nelle declinazioni un po’ rétro o fiabesche, con un particolare occhio al pubblico infantile (che da noi è un continente inesplorato, in cui si è addentrato di recente solo l’ultimo film Indigo-Salvatores, Il ragazzo invisibile): Le vacanze del piccolo Nicolas (ma si possono ricordare anche Il fantastico viaggio di T. S. Spivet di Jeunet, o L’ultimo lupo di Jean- Jac- ques Annaud, film più visto dell’anno nel mercato più grande del mondo, la Cina).
Forse è che da noi manca la tradizione e l’attitudine alla commedia sentimentale, nonostante i continui tentativi che si rivelano quasi sempre fiacchissimi. Manca l’osservazione di costume, la capacità di osservare le sfumature di classe (la carenza forse più grave delle nostre sceneggiature). È come se certo cinema francese riempisse in Italia un vuoto di generi e di pubblico, di un cinema medio più o meno superficiale, più o meno attento al presente, girato in maniera non televisiva e con attori non logori. Immaginate cosa sarebbe stato, da noi, Ma sarà il mio tipo? (incassi decorosi, sopra i 500 mila euro), bella storia d’amore tra un algido professore parigino e una parrucchiera di provincia, interpretato perfettamente, con qualche bel tocco di regia e con osservazioni sociologiche precise. Lo avremmo ambientato magari in Puglia, con Lo Cascio e la Ramazzotti condannati nei soliti ruoli, a fronteggiare lo scherno dei blogger. In un Paese senza una borghesia colta e cosciente, e con un’eredità di teatro borghese anch’essa sepolta, cosa aspettarsi? Non si tratta di dire quanto sono bravi i francesi e quanto è brutto il nostro cinema, ma di capire i motivi dell’importabilità di un cinema, del vuoto che esso riempie. D’altro canto, inversamente, il nostro cinema “medio” o commerciale è in esportabile e in esportato, mentre all’estero girano per festival e incassano, molto più che da noi, La bocca del lupo di Pietro Marcello, Le meraviglie di Alice Rohrwacher, o Vergine giurata di Laura Bispuri, film più difficili ma evidentemente suscitano l’interesse di una élite al di fuori dei nostri confini.