Alla ricerca di più mercato e meno Stato
La metamorfosi industriale è già cominciata ma la politica sembra non essersene accorta. Il dualismo veneto sta proprio qui, in un’autonomia del tessuto economico dalle regalìe della macchina regionale, che come in tutte le aree ricche dispiega il suo armamentario di società partecipate al servizio di coloro in sintonia all’entourage partitocratico.
Si tratta di somme enormi sulle quali i politici glissano dirottando le attenzioni sui costi dei singoli consiglieri regionali (vitalizi, rimborsi, diarie). C’è ben altro nella cassaforte di una Regione come il Veneto, e la posta in palio di questa tornata elettorale è proprio il dimagrimento di una macchina regionale che come paventato nelle previsioni più fosche si è sostituita all’oppressione romana.
Per fortuna a Nordest la dialettica tra impresa e politica non teme i conflitti come altrove. E in modo educato ma fermo gli industriali e gli artigiani regionali hanno unito le loro forze per illustrare ai politici due manifesti (“La manifattura digitale” e “Verso il Veneto 2020”) che senza tanti preamboli elencavano una serie di priorità indispensabili alla ripresa industriale dopo i peggiori sette anni dalla fine della seconda guerra mondiale. Il messaggio, ancorché subliminale, era chiaro: i soldi vanno concentrati in azioni chiare, condivise e soprattutto finalizzate alla ricostituzione e alla digitalizzazione del tessuto produttivo. I candidati, ognuno a suo modo, hanno aderito entusiasticamente alle proposte degli imprenditori, uno slancio che da oggi in poi dovrebbe concretarsi in scelte e politiche coerenti. Accadrà, non accadrà? Difficilmente un governatore appena eletto si priverà di una cassaforte (vedi Veneto sviluppo) che consente di manovrare miliardi di euro con grande disinvoltura.
Il Veneto rivendica da sempre un’autonomia speciale (in consiglio regionale giacciono due leggi, una per un referendum sull’autonomia, l’altra sull’indipendenza) sostenuta dalla storia millenaria della Serenissima e da un residuo fiscale netto trasferito allo stato centrale di oltre 20 miliardi (tutte le regioni del Sud hanno un residuo fiscale negativo). Che sarebbero molti di più se la Regione tornasse al suo compito originario di legiferare e si ritirasse da compiti operativi che in base al principio di sussidiarietà dovrebbe essere devoluti alle istituzioni più vicine ai cittadini (leggi Comuni o unione dei Comuni). Dal Veneto, insomma, dovrebbe partire un disegno virtuoso di alleggerimento delle pachidermiche macchine tecnocratiche, con la liberazione di somme ingenti da concentrare sulla programmazione degli investimenti in infrastrutture materiali e immateriali e nella governance di processi complessi come l’occupazione, l’innovazione, la formazione. Lo slogan più mercato meno Stato, insomma, dovrebbe trovare nel regno della piccola e media impresa terreno fertile e magari riverberarsi nelle altre regioni settentrionali. Non basta affermare che la sanità veneta “è la prima in Italia”. Ci vuole altro ai tempi dell’economia 2.0. A partire, ma questo è un discorso che vale per tutte le altre regioni e persino per l’esecutivo, da una nuova classe di amministratori con curricula coerenti e competenze al di sopra di ogni sospetto.