Il Sole 24 Ore

L’italiano, una lingua diversamen­te unitaria

- Notizie tratte da: Roberta Cella, Storia dell’italiano, Il Mulino, pp. 186, euro 16,00.

Parole. Per non andare a scuola in giorni di lezione, a Milano si usa « bigiare » , a Roma « far sega » , a Napoli « fare filone » , a Firenze « far forca » . « Spigola » e « branzino » sono lo stesso pesce, a seconda lo si peschi sull’Adriatico o sul Tirreno. A proposito di « pésca » : solo romani e toscani la distinguon­o dalla « pèsca » , il frutto con la “e” aperta. La giacca s’appende all a « gruccia » in Toscana, ma alla « stampella » più a sud. A Milano usano l’ « ometto » .

Bembo. La definitiva affermazi one del toscano ( il fiorentino trecentesc­o) come lingua volgare comune si ha nel 1 525 con l a pubblicazi­one delle Prose della volgar lingua di Pietro Bembo. « È ancora grazie a Bembo se oggi gli italiani possono leggere con facilità i testi medievali: t utti gli altri europei hanno bisogno di traduzioni in lingua moderna per apprezzare la propria letteratur­a antica, mentre noi, con un po’ di istruzione e di buona volontà, possiamo leggere Dante e Petrarca s enza mediazioni » .

Manzoni. Manzoni sostiene con forza che « una lingua è un tutto o non è » . Deve fornire tutti gli elementi necessari a tutte le circostanz­e comunicati­ve. Deve essere fatta di parole necessarie. Parole della vita di tutti i giorni. Per Manzoni la scrittura, la lingua i taliana non è mai una questione di scelta, ma di necessità: « Che questa facoltà di scegliere ( dovuta alla molteplici­tà dei dialetti - ndr) è appunto la nostra miseria… » .

Fiorentino. Per unificare la lingua, Manzoni, chiamato a far parte di un’apposita commission­e ministeria­le, propose un dizionario dell’uso vivo del fiorentino, una serie di dizionari dialettali per la traduzione in fiorentino delle parole locali, la preferenza dei maestri di scuola toscani da mandar in giro per l’Italia, borse di studio per permettere agli studenti di passare un’annualità in Toscana.

Analfabeti. Con l o Stato unitario, l a questione della l i ngua nazionale diventa essenzialm­ente economica: se si vuole concorrere con gli altri Paesi si deve portare l a popolazion­e a un l i vello di i ntegrazion­e e formazione l i nguistica accettabil­i. Al momento dell’Unità d’Italia, l ’ analfabeti­smo era al 75%, con punte del 90% i n Sicilia e Sardegna. Nelle campagne l a situazione era più tragica che nelle aree urbane e per l e donne l ’ i struzione era un l usso: i n Calabria e Basilicata l e donne alfabetizz­ate erano soltanto i l 5 per cento.

Ascoli. Contrariam­ente alle proposte d’indottrina­mento manzoniano, i l goriziano Graziadio I saia Ascoli, studioso di glottologi­a di orientamen­to positivist­a, riteneva che la lingua nazionale non la si potesse studiare o pianificar­e nelle scuole, come una strategia di guerra. «È necessario agire non sulla lingua direttamen­te, ma sui fattori storico-culturali ed economici». E aveva ragione: se la lingua nazionale (di derivazion­e fiorentina) è divenuta tale, lo si deve alle migrazioni interne, all’inurbament­o delle popolazion­i contadine, alla generalizz­azione dell’istruzione, alla leva militare obbligator­ia e ai mezzi di comunicazi­one di massa.

Censimento. Secondo il XV Censimento generale della popolazion­e e delle abitazioni del 2011, l’analfabeti­smo è una battaglia ormai vinta: con l’1,06% della popolazion­e analfabeta. Quello che questo dato rassicuran­te non dice è che, comunque, il 70% della popolazion­e tra i 16 e i 65 anni si colloca a un livello di istruzione più basso di quello considerat­o necessario «per interagire in modo efficace».

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