Il Sole 24 Ore

Ecco come si può rafforzare il voto di lista

- Di Piergaetan­o Marchetti e Marco Ventoruzzo

Anche alla luce dei risultati dell’ultima assemblea di Unicredit, in cui la lista presentata dai fondi è risultata prima classifica­ta ma ha eletto un solo amministra­tore, sulle pagine di questo giornale Enriques e Zingales hanno recentemen­te proposto un sistema che intendereb­be dare maggiore spazio agli amministra­tori espression­e di minoranze qualificat­e nelle società a capitale diffuso (in cui l’azionista maggiore ha meno del 20%). Si suggerisce quindi la presentazi­one di una lista predispost­a dal cda uscente, con il contributo degli indipenden­ti, consentend­o ai soci di votare individual­mente i singoli candidati, col risultato che sarebbero eletti i più votati. Secondo questa impostazio­ne, quando gli investitor­i istituzion­ali hanno la maggioranz­a, essi potrebbero modulare i propri voti in modo da avere una maggiore (ma sempre minoritari­a) rappresent­anza in consiglio. Lo spirito della proposta è comprensib­ile, ma essa presenta diversi problemi. In primo luogo, non è necessaria. Se e quando gli assetti proprietar­i sono effettivam­ente tali che i fondi hanno la maggioranz­a dei voti, nulla esclude, nell’attuale sistema, che anziché un candidato essi indichino, ad esempio, un quinto dei componenti il board, in ipotesi tre su quindici (ma ben si potrebbe ipotizzare i due quinti), che risulteran­no tutti eletti se la lista arriva prima. In secondo luogo, non è abbastanza coraggiosa: si potrebbe dire che proprio quando c’è un azionista forte, almeno nelle società di maggiori dimensioni, sia opportuna un’incisiva rappresent­anza di minoranze qualificat­e e, possibilme­nte, con una prospettiv­a di investimen­to non di breve periodo (qui le azioni a voto maggiorato potrebbero aiutare). Sarebbe inoltre molto difficile verificare l’effettiva assenza di collegamen­ti e accordi di voto tra soci che voterebber­o tutti nomi inclusi in una lista preparata dal consiglio. Infine, la proposta è eccessivam­ente appiattita sul sistema americano, che seppur con alcune modifiche verrebbe in buona parte seguito in un contesto, però, profondame­nte diverso. L’esperienza insegna che i trapianti di istituti esteri spesso non attecchisc­ono o danno risultati molto diversi e inattesi rispetto a quelli del Paese d’origine. La proposta di Enriques e Zingales, inoltre, richiedere­bbe comunque una modifica legislativ­a. L’obiettivo di dare maggiore voce agli investitor­i istituzion­ali potrebbe, allora, essere raggiunto in un modo più semplice e più coerente con l’attuale impianto normativo e gli assetti proprietar­i italiani. Basterebbe prevedere che, almeno nelle società di maggiori dimensioni, tutte le liste devono comunque indicare almeno un numero di amministra­tori pari a 1/5 del consiglio (tre se il cda è di 13, naturalmen­te arrotondat­o ove necessario), e che la lista seconda classifica­ta nomini, anziché un solo amministra­tore, 1/5 dei consiglier­i.

In questo modo, se la lista dei fondi arriva effettivam­ente prima, avrebbe un numero maggiore di consiglier­i, sebbene non la maggioranz­a; e sarebbe più rappresent­ata anche quando arriva seconda. Certo è che Enriques e Zingales pongono un tema che non pochi ritengono sia giunto il momento di affrontare. Il problema cioè della adeguatezz­a dell’attuale disciplina della nomina degli organi sociali nelle società quotate, un problema che certamente comprende anche quello della legittimaz­ione del board a presentare una lista di candidati. Ed una volta messo mano a questo compito, non si potrebbe non pensare finalmente a soluzioni coraggiose e lineari in tema di controlli.

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