Ecco come si può rafforzare il voto di lista
Anche alla luce dei risultati dell’ultima assemblea di Unicredit, in cui la lista presentata dai fondi è risultata prima classificata ma ha eletto un solo amministratore, sulle pagine di questo giornale Enriques e Zingales hanno recentemente proposto un sistema che intenderebbe dare maggiore spazio agli amministratori espressione di minoranze qualificate nelle società a capitale diffuso (in cui l’azionista maggiore ha meno del 20%). Si suggerisce quindi la presentazione di una lista predisposta dal cda uscente, con il contributo degli indipendenti, consentendo ai soci di votare individualmente i singoli candidati, col risultato che sarebbero eletti i più votati. Secondo questa impostazione, quando gli investitori istituzionali hanno la maggioranza, essi potrebbero modulare i propri voti in modo da avere una maggiore (ma sempre minoritaria) rappresentanza in consiglio. Lo spirito della proposta è comprensibile, ma essa presenta diversi problemi. In primo luogo, non è necessaria. Se e quando gli assetti proprietari sono effettivamente tali che i fondi hanno la maggioranza dei voti, nulla esclude, nell’attuale sistema, che anziché un candidato essi indichino, ad esempio, un quinto dei componenti il board, in ipotesi tre su quindici (ma ben si potrebbe ipotizzare i due quinti), che risulteranno tutti eletti se la lista arriva prima. In secondo luogo, non è abbastanza coraggiosa: si potrebbe dire che proprio quando c’è un azionista forte, almeno nelle società di maggiori dimensioni, sia opportuna un’incisiva rappresentanza di minoranze qualificate e, possibilmente, con una prospettiva di investimento non di breve periodo (qui le azioni a voto maggiorato potrebbero aiutare). Sarebbe inoltre molto difficile verificare l’effettiva assenza di collegamenti e accordi di voto tra soci che voterebbero tutti nomi inclusi in una lista preparata dal consiglio. Infine, la proposta è eccessivamente appiattita sul sistema americano, che seppur con alcune modifiche verrebbe in buona parte seguito in un contesto, però, profondamente diverso. L’esperienza insegna che i trapianti di istituti esteri spesso non attecchiscono o danno risultati molto diversi e inattesi rispetto a quelli del Paese d’origine. La proposta di Enriques e Zingales, inoltre, richiederebbe comunque una modifica legislativa. L’obiettivo di dare maggiore voce agli investitori istituzionali potrebbe, allora, essere raggiunto in un modo più semplice e più coerente con l’attuale impianto normativo e gli assetti proprietari italiani. Basterebbe prevedere che, almeno nelle società di maggiori dimensioni, tutte le liste devono comunque indicare almeno un numero di amministratori pari a 1/5 del consiglio (tre se il cda è di 13, naturalmente arrotondato ove necessario), e che la lista seconda classificata nomini, anziché un solo amministratore, 1/5 dei consiglieri.
In questo modo, se la lista dei fondi arriva effettivamente prima, avrebbe un numero maggiore di consiglieri, sebbene non la maggioranza; e sarebbe più rappresentata anche quando arriva seconda. Certo è che Enriques e Zingales pongono un tema che non pochi ritengono sia giunto il momento di affrontare. Il problema cioè della adeguatezza dell’attuale disciplina della nomina degli organi sociali nelle società quotate, un problema che certamente comprende anche quello della legittimazione del board a presentare una lista di candidati. Ed una volta messo mano a questo compito, non si potrebbe non pensare finalmente a soluzioni coraggiose e lineari in tema di controlli.