Il Sole 24 Ore

Per le dipendenti della Pa scalino di sei anni

- Fabio Venanzi

pLe più penalizzat­e sono le lavoratric­i del pubblico impiego, per le quali l’età minima necessaria per il pensioname­nto, tra il 2010 e il 2015, è aumentata di sei anni. Il passaggio dalla pensione di anzianità a quella anticipata, invece, ha comportato un incremento, tra il 2007 e il 2012, di sette anni di contributi e cinque di età (per non subire penalizzaz­ioni economiche). Le modifiche minori riguardano l’assegno di vecchiaia per gli uomini, dipendenti o autonomi, il cui requisito anagrafico negli ultimi quindici anni è salito solo di 15 mesi.

Sono questi gli effetti principali, in termini di requisiti minimi, delle riforme previdenzi­ali effettuate negli ultimi undici anni, in cui si contano quelle a firma Maroni (2004), Prodi (2007), il decreto legge 78/2009, la “manovra estiva Sacconi” del 2010 e quella del 2011. Già, perché anche se buona parte dei lavoratori oggi maledice la riforma Monti-Fornero di fine 2011, l’intervento sui requisiti è stato effettuato in più anni con provvedime­nti successivi.

Di certo la più recente revisione straordina­ria ha stravolto il futuro di una platea di lavoratori non indifferen­te. Il superament­o della pensione di anzianità (a quel tempo raggiungib­ile con 60 anni di età, 35 di contributi e una quota di 96) e l’istituzion­e della pensione anticipata (42 o 41 anni di contributi più un mese) ha significat­o per molti attendere l’età prevista per il conseguime­nto della pensione di vecchiaia.

Salvo i casi di coloro che hanno iniziato a lavorare stabilment­e prima dei 24 anni, o che dopo la laurea hanno trovato immediatam­ente un impiego, la pensione anticipata rischia di essere posticipat­a rispetto alla vecchiaia e quindi un traguardo impossibil­e da raggiunger­e. Ildifferim­entomaggio­relohanno pagato i lavoratori e le lavoratri- ci nate nel 1952 che, anziché accedere alla pensione nel 2012, rischiano di arrivare al traguardo non prima del 2018.

Il salto verso l’alto del requisito anagrafico­chehapenal­izzatoledi­pendenti del pubblico impiego, invece, dipende più dalla riforma del 2010 che dalla Monti-Fornero. Fino al 2009 per queste lavoratric­i erano sufficient­i 60 anni. Nell’estate di sei anni fa, però, il requisito venne portato a 65 anni. Di conseguenz­a le donne nate nel 1961, con ameno 20 anni di contributi, hanno avuto l’illusione, fino al 2010, di poter accedere nel 2013 alla vecchiaia, ma così non sarà: infatti per effetto di quella manovra e della Monti-Fornero ora dovranno attenderei­l2017-2018, quandoavra­nno il minimo di 66 anni e 7 mesi.

All’estremo opposto, pochi cambiament­i riguardano la pensione di vecchiaia ordinaria per gli uomini, anche se, sul piano concreto, la penalizzaz­ione si verifica perché non c’è più la pensione di anzianità (salvo che per alcune categorie) che in origine richiedeva solo 57 anni di età e 35 di contributi per poi salire a 60 e 35 nel 2011. Preso atto di ciò, i minimi della vecchiaia sono passati dai 65 anni di età con 20 di contributi del 2001 agli attuali 66 anni e 3 mesi.

In prospettiv­a, invece, saranno le dipendenti del settore privato a dover fare i conti con l’incremento più consistent­e dei requisiti. A seguito dell’adeguament­o alla speranza di vita che si applicherà nel triennio 2016-2018 (+4 mesi), ma anche di quanto già previsto dalle manovre estive del 2010 e del 2011, il minimo per il trattament­o di vecchiaia passerà dai 63 anni e 9 mesi attuali ai 66 e 7 mesi del 2018. Uno scalino di 34 mesi che non ha uguali per le altre categorie di lavoratori: per le autonome sarà di 22 mesi, per le dipendenti del pubblico impiego (che, come visto, “hanno già dato”) e per tutti gli uomini sarà di 4 mesi.

Il 2018 sarà l’anno dell’equiparazi­one dei requisiti per la vecchiaia di tutte le categorie. Salvo ulteriori interventi, dal 2019 ogni due anni, si applicherà solo l’adeguament­o alla speranza di vita.

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