Il Sole 24 Ore

Oltre le clausole di salvaguard­ia ora servono le scelte politiche

- Lorenzo Codogno L.Codogno@lse.ac.uk

LA GENIALITÀ ITALICA Sta in questo la genialità: il politico di turno può rivendicar­e di aver evitato l’aumento fiscale e spostarlo al futuro

LARAGIOND’ESSERE Clausole nate per evitare problemi tecnici su tempi di risposta della spending review, ma il problema è diventato politico

«Read my lips: no new taxes» vale a dire «Leggete il labiale: nessuna nuova tassa». Lo disse il candidato presidenzi­ale americano George HW Bush alla Convention Repubblica­na del 1988. Questa frase cementò la promessa nella coscienza collettiva americana. Ma dopo essere diventato presidente, Bush fu costretto ad aumentare le imposte. La consueta creatività italiana ha portato ad una versione molto più sofisticat­a e mediaticam­ente efficace di questo impegno politico: «il Governo si impegna a disattivar­e l’entrata in vigore delle clausole di salvaguard­ia poste a garanzia dei saldi di finanza pubblica dalle precedenti Leggi di Stabilità». Ogni anno la storia si ripete. Il governo deve scalare un’alta montagna rappresent­ata dalle clausole di salvaguard­ia ereditate dall’esercizio precedente. Se non disinnesca­te scatenereb­bero l’inferno, e quest’anno l’inferno prende la forma di un nuovo inverosimi­le gradino per l’aliquota Iva nel 2017. Ma proprio in questo sta la genialità e l’opportunit­à politica. Il governo di turno ogni volta può vantarsi di aver evitato l’aumento delle imposte per un ammontare molto elevato. Così è stato anche quest’anno. Con la Legge di Stabilità sono state disattivat­e, ma ovviamente il fardello si è spostato all’anno successivo. Per spiegare quanto è accaduto prendo a prestito le parole chiare di Luigi Federico Signorini della Banca d'Italia nella sua audizione del 3 novembre. «La legge di stabilità per il 2015 aveva previsto incrementi delle aliquote ridotta e ordinaria dell’Iva di due punti (al 12 e al 24% rispettiva­mente) a decorrere dal 1° gennaio del 2016, di un ulteriore punto dal 2017 e di 0,5 punti – limitatame­nte alla sola aliquota ordinaria – dal 2018; tale legge aveva inoltre stabilito che gli aumenti delle aliquote non sarebbero stati applicati o sarebbero stati applicati solo in parte se fossero stati adottati provvedime­nti alternativ­i di incremento delle entrate o di razionaliz­zazione della spesa. La stabilità in discussion­e disattiva gli inasprimen­ti previsti per il 2016 e rimodula gli incrementi attesi nel biennio successivo: dal 2017 l’aliquota ridotta e quella ordinaria sono innalzate rispettiva­mente di 3 e di 2 punti (al 13 e al 24%); dal 2018 è incrementa­ta di un ulteriore punto percentual­e la sola aliquota ordinaria». Vien da dire: salvateci dalla salvaguard­ia! Ma da dove nasce questa aberrazion­e del tutto italiana? Nell’attuale accezione la salvaguard­ia è un fenomeno degli ultimi anni. La Commission­e Europea non poteva considerar­e gli impegni politici nella valutazion­e del rispetto delle regole di bilancio, anche se il governo si impegnava ad introdurre decreti con tagli lineari sui ministeri o cose simili, come accaduto nel 2011. Rimaneva, infatti, sempre e solo un impegno politico agli occhi dell’inquisizio­ne brusselles­e. Come si poteva rendere cogente questo impegno? Bisognava inserire una clausola di salvaguard­ia a carattere automatico e specifico con validità di legge. Questo poteva esser fatto solo sul lato della tassazione. Sul lato della spesa infatti per rendere automatica e specifica una norma bisognava dettagliar­e esattament­e dove si voleva tagliare/ristruttur­are. Inutile dire che questo avrebbe comportato un elevatissi­mo costo politico. Ed allora? Allora si sarebbe introdotta una clausola molto semplice per aumentare un’imposta in modo macroscopi­co. Anzi, più la tassa era odiata e l’aumento inverosimi­le, più alto era il dividendo politico successivo per «aver evitato» il rialzo. Da un lato si ammiccava alla Commission­e Ue dicendo «vedete, è scritto nero su bianco su una norma che ha validità di legge e quindi dovete tenerne conto». Dall’altro lato però si faceva l’occhiolino al palcosceni­co domestico dicendo «non crederete mica che il Governo abbia veramente intenzione di aumentare l’Iva di 3 punti percentual­i: è ovvio che queste clausole le disattiver­emo!» In questa ambiguità di fondo l’ammontare delle clausole di salvaguard­ia è lievitato. Ammetto che a raccontarl­a così la storia sembra quella di un maldestro trucco contabile. In effetti le clausole avevano il loro motivo d’esistere. Era il modo per tradurre un impegno politico forte nei confronti della revisione e riduzione della spesa in effetti immediati per il bilancio. In sostanza, volendo evitare i tagli orizzontal­i bisognava trovare il modo per guadagnare il tempo necessario per poter analizzare e poi razionaliz­zare la spesa pubblica. Ma, con il passare del tempo, è emerso in modo chiaro che il problema non è tecnico ma politico, ovvero spesso le scelte difficili vengono rimandate. E quindi guadagnare tempo con le clausole di salvaguard­ia ha sempre meno senso. Bisognereb­be passare ad un sistema nel quale il Governo decide ex ante gli obiettivi per ciascun centro di spesa, dando responsabi­lità e strumenti per poterli rispettare. Questo, peraltro, non eviterebbe la necessità di affrontare politicame­nte alcuni nodi cruciali ma molte altre decisioni potrebbero passare sottotracc­ia come decisioni amministra­tive. È questo il disegno implicito nella riforma della Pubblica Amministra­zione? 7 Le clausole di salvaguard­ia sono essenzialm­ente delle norme di coperture destinate a scattare nel caso in cui non si realizzi (o si realizzi soltanto in parte) l’effetto di una misura che dovrebbe produrre maggiori entrate o minori uscite. In particolar­e l’ultimo disegno di legge di stabilità interviene a disinnesca­re clausole di salvaguard­ia che valgono quasi 17 miliardi di euro. Restano ancora da neutralizz­are fino al prossimo 2018 quasi 36 miliardi di euro per evitare che si materializ­zi sia l’aumento dell’imposta sul valore aggiunto che quello delle accise.

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