Parole di un nuovo idillio
Un’inno al creato lirico, schietto e appassionato: un omaggio tutto femminile a San Francesco
Confrontandomi con i suoi primi movimenti, ho pensato: com’è francescano quest’ultimo libro di Mariangela Gualtieri, Le giovani parole… Ed ecco che, verso la fine, Francesco d’Assisi viene direttamente nominato e ringraziato, come se un debito così accertabile non potesse non ammettersi apertis verbis.
Mariangela si è data la maschera o, se preferiamo, la missione di un Francesco femmina, e ha operato con una dedizione e un’immedesimazione che non lasciano dubbio sull’autenticità e sull’urgenza del dire. È sorto, così, uno dei più appassionati inni all’universo e al creato che possiamo sperare di trovare di questi tempi. Ci voleva. La nostra tradizione corrente (salve eccezioni, come Luciano Cecchinel o Bruno Galluccio o il meno conosciuto, ma bravissimo Stefano Freddi) sembra rifuggire dal quadro naturale; declama, sermocina, magari denuncia, ma non guarda poi molto fuori dagli spazi dell’ego. Gli strascichi avanguardistici vorrebbero distrutto anche quello. E invece quanta strada si può ancora compiere nella direzione dell’idillio, leopardiano, pascoliano, o dannunziano che sia. Nell’idillio, infatti, io e mondo si sostengono a vicenda, alla faccia della faciloneria terroristica di certi. Basta non aver paura, basta crederci, fidarsi dell’altro, bestia, foglia, cielo, come fa appunto Mariangela (mi permetto di chiamarla così, anche se non ho ancora avuto il piacere di stringerle la mano).
Non mi addentro nel tentativo, non facile ma plausibile, di stabilire se Le giovani parole ci mettano davanti a una qualche forma di “poesia religiosa”. Una definizione del genere, d’altronde, non credo che sia indispensabile. Di certo, qui un individuo umano – e che questo sia una donna non è indifferente – si inchina davanti a una dimensione superiore, alla natura, e riconosce un ordine, un cosmos che trascende la condizione del singolo, umano e no. Chi parla assiste con inestinguibile gratitudine e piacere alla catena di miracoli che avvengono ogni momento, nel piccolo e nel grande, nel buio di un grembo o nella luce del cielo. Direi che quell’assistere, quel tenere gli occhi sul mondo sia, più ancora che le visioni stesse, il senso ultimo e la fonte di questa poesia: un impegno ad ammirare, a ricevere i portenti che la natura non smette di elargire.
Perché? Lo impone, parrebbe, la struttura psichica dell’ammirante. Lei è fatta così. Il senso della sua vita è la vita, la coscienza esaltata ed esaltante di appartenere all’armonia del bio-logico. Poca memoria, qui; se non quella, appunto, del fisico, della physis, che sa cosa deve fare e dove deve andare. La personalizzazione del tema, semmai, produce il fantasma della madre; una madre gravida e poi morente, alla quale si nega l’elegia. La sua morte, infatti, non dà nella dissoluzione, non è oscurità, non è lutto: è, come tutto quello che ci sta intorno, legge luminosa, momento del capolavoro cosmico.
L’amore della natura si confonde inevitabilmente con l’amore dell’artistico che la natura contiene. Anche un virus, anche una cancrena, visti al microscopio, hanno la loro bellezza. Un’ala di farfalla si rivela, ingrandita, tante piccole ali, un’opera di squisita oreficeria… Mi sto riferendo a certi componimenti dell’ultima parte, che è splendida. Ma molto bella è anche la prima parte, apparentemente più piana, fresca, esclamativa, tutto un lodare il generarsi e il rigenerarsi, e portare in primo piano fiori e frutti. Straordinario che tutti questi elementi non siano elevati a simboli o metafore. Mariangela, anzi, sembra che voglia far fare alla poesia l’opposto di quello che le si è tradizionalmente (petrarchescamente) chiesto di fare: di significare altro da ciò che pronuncia. Mariangela dice fiore e sta chiamando il fiore, vuole che il fiore sia fiore, cioè che vi scopriamo o riscopriamo una complessità e una grandezza che noi, deviati frequentatori di alberghi e di luoghi fasulli, non sappiamo o non vogliamo o non possiamo ormai più notare.
Bene. Le cose, però, sono assai più difficili. Le parole sono difficili. Un fiore, a chiamarlo, è davvero un fiore? E un cielo? Che cos’è veramente ciò che, dandogli un nome, noi pretendiamo che sia? Quanto possiamo, scrivendo poesia, appoggiarci a significati convenzionali? Chi ci capirà? Chi ci crederà? E poi per parlare di un fiore dobbiamo veramente parlare di fiori?
Mariangela, che conosce molte tradizioni e dialoga con le fonti più diverse, queste domande se le è poste. Ma le ha gordianamente tagliate. La sua “schiettezza” verbale, la sua “simplicitas”, il suo chiamare un fiore fiore è una sorta di scommessa, una sfida; e anche, un po’, una presunzione idealistica: ma sì, so che mi capite; vi sto aprendo gli occhi, in fondo. Vi sto parlando; sì, sto dicendo a voi. Ed è vero. Il suo entusiasmo – nel senso più profondo del termine – trascina e convince, e fa nascere vere e proprie gemme. Ne cito due o tre: «Ogni stella di questo emisfero / passa sull’orto»; «Stai quieto ora. Tornerà. / Tornerà la giovane parola»; «Guarda – c’è bellezza. Se qualcuno fece / operò bellamente – graziosamente fece / proprio così nella maniera / che a tutti piace il cielo»… Insomma, la ascoltiamo, le crediamo, la ammiriamo, imparando da lei quello che lei insegna a se stessa. E così entriamo in quel suo modo di poetare che è davvero diverso, elegante e no, immediato e no, facile e no: perché, prima che nella metrica, nella grammatica, nella punteggiatura e nel lessico, lo stile di Mariangela si realizza nel gesto, anzi: come gesto. Questi componimenti sono atti di presenza, verso per verso. Nessuno si può separare, anche se è costituito da mute lettere di inchiostro, dalla voce di lei. E si sa quanto è brava, quanto è impegnata a leggere le sue cose in pubblico. Il suono di quella voce dobbiamo farlo noi, per quel che riusciamo, leggendo con lo sguardo: sentirlo erompere da sotto i segni, gonfiare la carta di passione e di volontà, vivificare la pagina, come le linfe, i succhi e gli spermi che Mariangela glorifica e che ci regalano il mondo.
Mariangela Gulatieri, Le giovani parole, Einaudi, Torino, pagg. 150, € 12,50