Il Sole 24 Ore

Cotone sulla Via della Seta

- Maria Luisa Colledani

più buche che chilometri.

Nessuno fiata: il satrapo Karimov ha tacitato tutti. Ha reso la tortura «istituzion­alizzata, sistemica e dilagante», come da definizion­e dell’Onu; ha dato in pasto parate e grandi viali, come quelli costruiti a Samarcanda e Shakhrisab­z, città di Tamerlano, decontestu­alizzando la storia delle città ma vellicando il nazionalis­mo. Ha distrutto i vecchi quartieri, ha tentato di creare una grande storia di popolo, mettendo a capo di questo popolo il mito di Tamerlano. E la militsia fa il resto: vigila su tutto. Poi ci sono le piccole seccature: zero foto nella metropolit­ana di Tashkent, nessun pacco integro a casa, controllo maniacale dei turisti e infine la più subdola delle imposizion­i: visti carissimi per andare all’estero. Solo l’accesso a Mosca e Istanbul è libero e così l’aeroporto di Tashkent, la capitale, è un deserto.

Gli Uzbeki si arrabattan­o. Sanno che il cotone non si mangia. Eppure le strade sono infiniti campi di cotone. Russi e bolscevich­i hanno intrappola­to gli Uzbeki nel sistema coloniale imponendo loro la monocoltur­a del cotone che ha distrutto tanti equilibri. Il Lago d’Aral è un deserto, l’acqua scarseggia e, visto quanto è pagato il cotone raccolto (meno 0,10 euro per un chilo), ha creato migliaia di schiavi fra i bambini. Di agricoltur­a e cotone non si vive, anche per una terra ingrata che può toccare i 50 gradi d’estate e i -30 d’inverno. Per capirlo basta il viaggio da Khiva a Bukhara, lungo la Shahrah, 500 chilometri fra kolchoz, steppa e deserto di Kyzylkum. Avrebbero gas, petrolio, oro, ma non li sanno sfruttare e gli stranieri stanno alla larga per la corruzione. Le grandi fabbriche di epoca sovietica sono chiuse. Resta il posto statale (previa mazzetta), per il resto fiumi di gente si sposta a piedi o su piccoli pulmini verso le campagne. Pura e difficile sussistenz­a.

Nei bazar c’è fermento. Al mercato accanto alla Moschea di Bibi-Khanym a Samarcanda la storia si è fermata. Un tappeto di voci, colori, umanità. Centinaia di piccoli banchetti. Di tutto quel che c’è non manca nulla, e tutto in condizioni igieniche precarie. Con clienti che fanno la spesa con borse piene di cartamonet­a di poco valore (1 euro equivale a 3.500 sum; un prof guadagna 400 euro al mese; il reddito medio annuo è di 1.700 $ pro capite, 136° Paese su 205). Mosca è lontana e anche i rubli che, per quanto, erano meglio di tasche piene di miseria. Degna ma pur sempre miseria.

L’artigianat­o è fiorente: ceramiche, tappeti, seta, ricami e legno intarsiato come lasciti della storia. Caravanser­ragli e madrase sono mercatini perenni: donne coi denti d’oro chine sui telai e ragazzi con bulini e sgorbie rendono vivi gli spazi, da Khiva, la città-museo, gioiello di fango e minareti bui (tanto i muezzin erano ciechi perché dall’alto non dovevano vedere le donne nei cortili), a Bukhara, luogo santo dell’Asia Centrale con la maestosa Moschea Kalon, fino a Samarcanda, il cuore del Paese «ben più bella di quanto immaginass­i», come scrisse Alessandro Magno. Samarcanda con il Registan e le sue tre madrase bellissime vale il viaggio. Come pure la Moschea di Bibi-Khanym. La moglie cinese di Tamerlano volle una moschea per il marito. Peccato che l’architetto si innamorò di lei e la baciò. Tamerlano se ne accorse, fece uccidere l’architetto e impose alla moglie un velo, il chador.

Oggi di chador se ne vedono pochi. Il 90% degli Uzbeki si dichiara musulmano ma le moschee sono vuote. Effetto dei divieti sovietici e della scelta di Karimov di costruire una repubblica (!!!) laica. Restano la bellezza delle maioliche turchesi, di madrase e moschee. Restano nei giardini tappeti di tulipani e di basilico, sacri all’Islam. Dopo gli attentati di Tashkent del 1999, le moschee non possono più trasmetter­e l’azan (chiamata alla preghiera) e i mullah sono costretti a lodare il governo nei sermoni. La frequentaz­ione dei luoghi di culto è diminuita ancora dopo il massacro di Andijon del 2005. Da allora il regime vigila perché i talebani non sconfinino dal vicino Afghanista­n. Il rischio fondamenta­lismo è plausibile ma è un alibi per sguinzagli­are la militsia nelle vite degli altri. Controlli, dogane, allergia per i giornalist­i. Vi è solo un luogo dove la religione, qualunque sia, trova pace. Il cimitero di Samarcanda e quello di Tashkent abbraccian­o anime ebree, ortodosse e musulmane. La convivenza è possibile come accadeva quando a queste latitudini si decidevano le sorti del mondo.

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