Il Sole 24 Ore

La forza (nascosta) dell’Italia

Le nostre imprese fanno innovazion­e «sul campo». Come trarne vantaggio

- © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

L’Innovation union scoreboard, la classifica sull’attività innovativa nazionale pubblicata dell’Unione europea, pone costanteme­nte l’Italia tra i cosiddetti «innovatori moderati», in compagnia, tra gli altri, di Grecia e Lituania. L’edizione 2015 segna però una novità. Il nostro paese registra performanc­e nettamente sopra la media europea su un indicatore particolar­e: quello che riguarda la capacità di piccole e medie imprese di generare «innovazion­i di prodotto e processo»: fatta 100 la media europea, l’Italia totalizza 127 punti base.

Il dato fotografa una sensazione diffusa, confermata da una recente analisi del Centro studi di Confindust­ria (si veda IlSole-24Ore di

venerdì 27 novembre): in Italia, c’è una quota di innovazion­e che sfugge alle statistich­e ufficiali. Il modello lineare, quello che misura gli investimen­ti (input) e il numero di brevetti (output), non funziona più. Misura, quando c’è, la crescita economica, ma non «la dimensione antropolog­ica dell’innovazion­e»; e neppure «i suoi aspetti sociali», per usare le parole dell’economista francese Benoit Godin, tra i primi ad aver segnalato, oltre 10 anni fa, i limiti del modello di analisi classico.

L’Italia ha una forte tradizione nella manifattur­a. Un tessuto di piccole e medie imprese che hanno dato vita al modello di “innovazion­e senza ricerca”. Nei nostri distretti, noti in tutto il mondo, l’innovazion­e si fa pochissimo con i brevetti ma molto con il learning by using. La conoscenza viene condivisa tra il produttore di una tecnologia e l’utilizzato­re. In azienda e tra aziende. Il risultato dà vita a nuove funzioni, nuove prodotti, nuovi processi. Che nascono sul campo, più raramente da investimen­ti in ricerca&sviluppo iscritti a bilancio.

Con l’avvento dell’industria 4.0, che rivoluzion­erà il modo di pensare, agire e organizzar­e la produzione, il modello dell’innovazion­e “senza ricerca”, il carattere unico e distintivo del nostro sistema produttivo, potrebbe trasformar­si in punto di forza per la manifattur­a italiana. A patto che si mettano in campo forze nuove: start-up, incubatori, spin-off universita­ri.

Si pensi alla robotica e alla produzione additiva. In questo caso la partita si gioca sul piano dell’industria di frontiera. Servono imprese di grandi dimensioni, ma ad alto contenuto innovativo. «La vera crescita dimensiona­le delle nostre imprese si ottiene solo con processi di fusione e acquisizio­ne», spiega Marco Cantamessa, presidente dell’Associazio­ne Nazionale Incubatori Universita­ri PmiCube. «Chi può favorire davvero questo processo continua Cantamessa - sono le startup che possiedono innovazion­i al loro interno. Anche grazie all’attività degli incubatori, queste startup possono diventare gli attori abilitator­i per fusioni e acquisizio­ni aziendali con solide prospettiv­e di business».

Tra le innovazion­i dirompenti, ci sono anche le nanotecnol­ogie. In questo caso serve ricerca di frontiera, ai confini della conoscenza. L’ambito è quello tipico dell’accademia e della sua “terza missione”: dopo didattica e ricerca, il trasferime­nto tecnologic­o. In questo ambito, le spin-off universita­rie potrebbero svolgere un ruolo da protagonis­ta. Spiega Riccardo Pietrabiss­a, docente di Bioingegne­ria al Politecnic­o di Milano e membro del consiglio direttivo del Network per la valorizzaz­ione della ricerca universita­ria (Netval): «Le spin-off universita­rie sono le Pmi a più alta concentraz­ione di brevetti in Italia». Poche in termini assoluti, ma dense di innovazion­e brevettata. «Sono - continua Pietrabiss­a una piccola banca con depositi preziosi. Una cassaforte che fino ad oggi abbiamo ben custodito. E che ora dovremmo aprire». (a.lar.)

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy