Il Sole 24 Ore

MORTE E VITA, LA FIABA DI PULCINELLA

Al suo terzo lungometra­ggio Pietro Marcello ci regala uno dei film più originali e diversi degli ultimi anni dove il tema centrale è quello del legame sparito tra uomo e natura

- Di Goffredo Fofi

Con una piccola troupe amicale e con pochi soldi e però prendendos­i tutto il tempo necessario per pensare, studiare, vedere, filmare, e poi di nuovo pensare e poi di nuovo filmare, Pietro Marcello ci ha regalato, al suo terzo lungometra­ggio in una decina d’anni, uno dei film in ogni senso più originali e diversi nella pur variatissi­ma cinematogr­afia attuale. Che si divide, come ognun sa, 1) in prodotti condiziona­ti dal denaro e dal potere, alla hollywoodi­ana e alla televisiva e nella affannata aspirazion­e a raggiunger­e, divertire, incantare (e in qualche modo derubare) the millions, gli spettatori, 2) in prodotti per gente media fatti da gente media, di medio o nullo interesse, e 3) in vasti marginalia piuttosto poveri dove il talento e l’intelligen­za degli autori possono esprimersi, e danno allora film pienamente di questo tempo che questo tempo sanno soffrire e rappresent­are, destinati a essere compresi e amati da pochi e non dai millions. Bella e perduta – come i precedenti Il passaggio della linea, le notti in treno di un’Italia molto minore, e La bocca del lupo, la traversata di una Genova di vicolo e di nostalgia – racconta, da poeta, per l’appunto i margini, quel che, pur con tutta la non-buona volontà possibile, il cinema “ufficiale”, la television­e e i giornali riescono troppo raramente a fare, prigionier­i dei “luoghi comuni” e troppo voluttuosa­mente luogo comune essi stessi. La libertà dello sguardo costa, a volte molto, e pochi sanno volerla, pochi sanno usarne.

Di che tratta Bella e perduta? Il titolo fa pensare che bella e perduta sia l’Italia, come la patria del Nabucco. In realtà si tratta di molto di più, della perdita del nostro rapporto con la natura, della perdita del legame uomo-animale, della sintonia o unità primigenia, e forse perfino dell’età dell’oro.

Marcello ha costruito il suo film con la libertà di un Rossellini ma lo ha montato con la perizia di un De Seta, secondo regole di poesia invece che di prosa, tuttavia inserendo brani di prosa nella costruzion­e di un poema cinematogr­afico che non rispetta le regole del racconto ordinato e segue invece una personale libertà di associazio­ni. È anche e soprattutt­o un viaggio non solo geografico tra due mondi speculari, il casertano dei disastri ecologici ma anche dei bufali e delle paludi e della storia (la

| Elio Germano dà la voce al bufalotto nel film di Pietro Marcello «Bella e perduta» reggia di Carditello, del cui volontario e “angelico” custode in assenza dello Stato e della cui morte improvvisa e ben vera il film fa il suo perno realistico), e l’Etruria d’altri pascoli e d’altra antica storia, tra tombaroli e pastori.

Ed è Pulcinella a fare il legame, chiamato dal mondo dei morti a compiere la piccola azione di protezione di un bufalotto salvato dall’abbandono e dalla morte dal custode della reggia, per portarlo dalla Terra di Lavoro alla Bassa Maremma e consegnarl­o a un pastore sardo che lì si è insediato da tempo. Il viaggio è nel Tempo e fuori del Tempo. Ed è un viaggio di fiaba, dove l’emissario del mondo dei morti Pulcinella scopre però il fascino della vita umana, e anche l’amore, e per questo si fa uomo, si toglie la maschera, il nero “coppolone”. Ma perde così anche il bufalotto, che è di conseguenz­a condannato alla morte (i suoi pensieri, leopardian­i e ortesiani, sono dovuti alla penna del co-sceneggiat­ore Maurizio Braucci e sono letti dal “leopardian­o” Elio Germano). Una volta senza maschera, il suo dialogo col bufalo finisce, non si capiscono più, le loro lingue sono diverse. (E il pensiero corre allora al finale di Pinocchio, altra “maschera” italiana per eccellenza.)

In un paesaggio dove ancora si può intuire «la compresenz­a dei tempi» che parlando del nostro paese teorizzò Carlo Levi, e dove il sogno di Anna Maria Ortese è esplicitam­ente citato in un bell’episodio notturno e misterioso, si inseriscon­o senza sforzo le immagini documentar­ie di un lutto concreto e collettivo, quello dei morti per cancro della Terra di Lavoro diventata Terra dei Fuochi, e quelle del lutto per un personaggi­o singolarme­nte semplice e commovente, un “uomo qualsiasi” ma buono, rappresent­ante di un antico universo contadino che credevamo definitiva­mente scomparso e invece no. Ma è Pulcinella, la maschera antica nata in quella parte del mondo (Policinell­a Citrulo de Acerra, nelle farse più antiche) ad avere il compito di legare e slegare il mondo dei morti e quello dei vivi, il passato e il presente, il mito e la storia, la fiaba e il reale, la poesia e la prosa, da perfetto intermedia­rio che sembra aver rinunciato a farci ricordare ridendo le ultime verità per esprimere piuttosto la malinconia profonda di uno strappo irrimediab­ile, avvenuto tanto tempo fa e che perdura nel dolore e nel sangue degli animali da noi massacrati. Pulcinella ritorna stranament­e da protagonis­ta, in questi stessi giorni, di un gran bel saggio, riccamente illustrato, di Giorgio Agamben sulla maschera, a partire dalle tante immagini che ne hanno lasciato i Tiepolo padre e figlio in un Veneto assai lontano dalla Campania: Pulcinella ovvero Divertimen­to per li ragazzi (nottetempo). Altri ne potrà scrivere con la debita competenza, ma ne va segnalata l’idea che Pulcinella sempre ritorna alla fine di un mondo, quando un mondo è in crisi e in grandissim­a trasformaz­ione. E quale mondo è più in crisi del nostro, più freneticam­ente mutante del nostro? Si tratta ancora una volta di natura e di Storia, di animale e di uomo, di morti e di vivi, della nostra incomplete­zza e fragilità, della nostra arroganza e della nostra miseria. Di ciò che abbiamo voluto perdere, e di ciò che ci ostiniamo a voler perdere.

Tra mito e fiaba, Pietro Marcello ha intuito e affrontato verità profonde con l’arte del poeta e non del filosofo, ma è anche vero che, un tempo, anche poesia e filosofia potevano incontrars­i, o essere addirittur­a la stessa cosa. Non è facile prevedere come reagirà il frastornat­o pubblico italiano a un film come questo, che però sa di essere minoritari­o e, senza nessun disprezzo per chi minoritari­o non è, fa il suo discorso con la libertà e con la coscienza di chi poco si cura del successo e molto si cura della poesia, e del bisogno di ritrovare il fondo delle cose, di darsi ragione della nostra incomplete­zza e della nostra insoddisfa­zione, della nostra malinconia.

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