Il Sole 24 Ore

Incrollabi­li abitazioni rabbiniche

- Di Giulio Busi

Quattro mura fanno una casa, e quattro sono anche le lettere con cui si scrive, la parola casa. Il gioco alfabetico riesce in italiano e in qualche altra lingua - home, Haus. Maison ha sei lettere, domus, cinque, ma poco importa, basta poterla mettere assieme, una casa, e riuscire ad abitarla, per sentirsi qualcuno. Chi è scacciato da casa propria rischia di diventare un signor nessuno. E un Dio che perda il proprio Tempio, è destinato a trasformar­si in un Non-Dio, fantasma senza potere e senza sostanza. David Kraemer del Jewish Theologica­l Seminary di New York ha scritto un bel libro sul doppio sfratto inflitto dai romani al popolo ebraico, nel 70 d.C, con la presa di Gerusalemm­e, e nel 135 d.C., dopo la rivolta di Bar Kokva. Distrutto il Tempio, devastata la città santa, non solo Israele è scacciato e in esilio, anche Dio non ha più un luogo in cui risiedere.

Kraemer interpreta alcune leggi rabbiniche, in specie quelle sullo Shabbat, come un tentativo di ricostruir­e uno spazio condiviso tra il Signore e il popolo. Non di muratura, questa volta, ma di parole e di misure simboliche. Le legioni romane hanno distrutto la Gerusalemm­e fisica? I rabbi non si perdono d’animo e con minuziosa esattezza stabilisco­no il perimetro che è lecito percorrere di sabato o fissano l’estensione di ogni angolo del Tempio. Queste rabbiniche sono case incrollabi­li: provate voi a buttar giù un recinto di lettere, una fortezza di frasi. Oltrettutt­o, le abitazioni di parole si possono smontare in qualsiasi momento e portare al là del mare. Edifici di diaspora, mura di consonanti, in cui stare al riparo dalla storia. David Kraemer, Rabbinic Judaism. Space and Place, Routledge, London, pagg. 156, € 145,00

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